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Le parole della Costituzione
Abbiamo ritenuto di inserire questo contributo tra gli scritti scelti di Valerio Onida, in un tempo nel quale si fa fatica a recuperare il senso vero e autentico della prospettiva democratica, non solo in Italia, che certamente passa per l’uso attento e prudente di parole giuste.
LE PAROLE DELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA*
Viterbo, 27 settembre 2019
Valerio Onida
Le costituzioni sono delle leggi, le leggi fondamentali: dunque il loro linguaggio è il linguaggio della legge, del diritto, specie oggi che, a differenza che nella prima fase storica del costituzionalismo, le costituzioni non si presentano più come documenti prevalentemente politici, intesi a proclamare il risultato di una rivoluzione vittoriosa, o a sancire i termini di un patto fra poteri diversi (Re e popolo), ma come documenti normativi, contenenti le norme fondamentali di un ordinamento giuridico.
Le leggi parlano per disporre (comandare, vietare, consentire), e dunque il loro linguaggio “iussivo” non è o non dovrebbe essere troppo lontano da quello dei soggetti a cui si rivolgono, specie se non parlano solo agli apparati di potere (amministrativi o giudiziari) ma vogliono parlare anche ai membri della collettività le cui condotte intendono disciplinare. Di qui l’esigenza di un linguaggio giuridico e legislativo il meno possibile arcano (non il “latinorum” di manzoniana memoria) e il più possibile comprensibile dai suoi destinatari.
Questa esigenza vale tanto più per la Costituzione, che non contiene norme rivolte essenzialmente agli apparati, ma norme rivolte a tutti, per guidare i comportamenti dei consociati, e ancor prima per esprimere e palesare i principi, vale a dire le idee-guida, i presupposti di fondo su cui si regge la convivenza civile e politica. È significativo, dal punto di vista simbolico, che nell’ultima delle disposizioni transitorie e finali della Costituzione repubblicana si sia stabilito che il testo della medesima fosse “depositato nella sala comunale di ciascun Comune della Repubblica per rimanervi esposto, durante tutto l’anno 1948 [il primo del suo vigore], affinché ogni cittadino possa prenderne cognizione”: per esprimere il fatto che essa intende parlare direttamente a tutti, non solo indirettamente attraverso gli apparati del potere.
Tullio De Mauro, analizzando il testo della Costituzione (quello originario: sarebbe interessante rifare l’esercizio dopo le numerose modifiche intervenute) ha rilevato che il 74% dei vocaboli (i lemmi) in esso usati e il 92% delle parole ricorrenti appartengono al nostro “vocabolario di base”, composto da 7000 vocaboli di uso frequente e di grande familiarità. E ha osservato altresì che il grado di “leggibilità” del testo costituzionale è molto più elevato, in virtù del vocabolario usato e della brevità dei periodi, di quello delle altre leggi: con un “indice di leggibilità” che ne faceva, già all’epoca della sua promulgazione, “un testo capace di raggiungere, sia pure con una lettura assistita e spiegata, tutta la popolazione con almeno la licenza elementare” (T. De Mauro, Introduzione. Il linguaggio della Costituzione, in Costituzione della Repubblica Italiana 1947, Torino, Utet, 2006, p. XXIV). Quelle della Costituzione sono davvero “parole di tutti e per tutti” (ibidem, p. XXXII).
Esse riflettono, prima ancora del contenuto precettivo di cui sono portatrici, l’intento di affermare e proclamare le idee e i valori fondanti della convivenza civile, dell’essere la collettività non un insieme indistinto di individui isolati gli uni dagli altri, occasionalmente insediati sullo stesso territorio, magari solo in concorrenza o in conflitto, reale o potenziale, fra di loro, ma una comunità, cioè un insieme di soggetti bensì diversi e con diversi interessi, ma aventi in comune dei valori appunto comunitari.
Le costituzioni moderne nascono infatti non come comandi unilaterali di un sovrano ai suoi sudditi (come poteva essere per atti pure denominati ”constitutiones” del passato), ma come enunciazione espressa di principi e valori affermati come comuni all’intera società.
La nostra Costituzione si basa sull’idea che il singolo individuo non è un numero anonimo, ma una “persona” dotata della dignità propria di ogni essere umano: quella “dignità umana” che per l’articolo 41, secondo comma, non può essere sacrificata da nessuna iniziativa economica; che fonda il limite del “rispetto della persona umana” inviolabile da parte della legge (art. 32, secondo comma, a proposito dei trattamenti sanitari), e il divieto di ogni violenza “sulle persone” sottoposte a restrizioni di libertà (art. 13, 4º comma); quella “personalità” che “si svolge” nelle formazioni sociali, le quali per questo sono riconosciute come “luoghi” ove si affermano i “diritti inviolabili”, oltre a quelli strettamente inerenti al singolo ”uomo” (art. 2), inteso appunto come essere umano; la “persona umana” il cui “pieno sviluppo” è compito della Repubblica promuovere (art. 3, secondo comma). Per questo anche la “responsabilità” verso la società, per le condotte penalmente rilevanti, è strettamente “personale” (art. 27, primo comma). Quei “tutti” ai quali si garantiscono i diritti fondamentali di libertà di pensiero e di religione (artt. 19, primo comma, e 21, primo comma: le prime delle “quattro libertà” del famoso discorso di Roosevelt del 1941, che dovevano essere riconosciute “in tutto il mondo”:cfr. F.D. Roosevelt, “Four freedom speech – Messaggio Annuale al Congresso sullo stato dell’Unione, 1° giugno 1941), nonché il diritto ad avere un giudice per la tutela dei diritti (art. 24, primo comma), e il diritto di proprietà, che deve essere resa “accessibile a tutti” (art. 42); quei “tutti” che, a contrario, godono delle garanzie di cui “nessuno” può esser privato nel campo della responsabilità penale (art. 25), sono, appunto, tutti gli esseri umani.
Molto spesso la Costituzione, parlando di diritti e di doveri, fa invece riferimento a “tutti i cittadini”: così non solo a proposito del diritto di voto, il principale “diritto politico” (art. 48), del connesso diritto di “associarsi liberamente in partiti” (art. 49), e dell’accesso ai pubblici uffici (art. 51) ma anche a proposito di altri diritti e doveri: così per il diritto al lavoro (art. 4), per il diritto a circolare e soggiornare liberamente nel territorio nazionale (art. 16), per il diritto di riunione (art. 17) e di associazione (art.18), per il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale di chi sia inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi di sussistenza, nonché per il dovere di “difesa della Patria” (art. 52) e per il dovere di fedeltà alla Repubblica (art. 54); e perfino quando, all’art. 3, proclama il fondamentale principio di uguaglianza (“tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”: mentre, per esempio, la Costituzione tedesca enuncia così il principio: “Tutti gli uomini sono eguali davanti alla legge”: art 3, par. 1, Legge Fondamentale del 23 maggio 1949).
Potrebbe dunque sembrare che, almeno con riguardo a questi diritti e doveri, la loro titolarità sia legata alla qualità non di persona ma di “cittadino”, cioè di appartenente alla specifica compagine sociale della Repubblica, appartenenza determinata sulla base delle leggi sulla cittadinanza, che distinguono appunto fra chi è o diventa “cittadino” e gli altri, i non cittadini (stranieri o apolidi).
Questo è indubbiamente vero, nella nostra tradizione costituzionale, per i diritti “politici” e per il dovere politico di difesa armata della patria, che si estrinsecava nel servizio militare obbligatorio (oggi abolito in tempi normali: cfr.il d.lgs. n. 66 del 2010), e si spiega con l’idea che la società cui la Costituzione si applica per intero sia identificata con l’insieme degli appartenenti alla “nazione”, e non con tutti coloro che di fatto in un determinato momento di tempo vivono entro i confini della Repubblica, partecipano alle attività collettive e all’uso dei beni collettivi: si identifichi cioè con quel “popolo” che costituisce l’elemento soggettivo della “Repubblica” e a cui la Costituzione attribuisce l’appartenenza e l’esercizio della “sovranità” (art. 1).
Tuttavia questa tradizionale distinzione e separazione fra cittadini pleno iure, appartenenti alla Repubblica, e persone che vivono più o meno stabilmente nel territorio della Repubblica, e sono membri della “società civile”, ma sono cittadini di un altro Stato, subisce oggi una forte attenuazione, da quando si è fatta strada a livello mondiale l’idea che esistono diritti e doveri che non riguardano solo l’’appartenenza alla comunità nazionale come collettività “storica” identificata da specifici fattori culturali e linguistici, ma l’appartenenza più ampia alla “umanità”: quell’idea che esprime la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo quando afferma che “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” (art. 1), e di conseguenza stabilisce che “ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella precedente Dichiarazione, senza distinzione alcuna”, nemmeno “di origine nazionale o sociale” (art. 2).
Si manifesta qui quello che può apparire come una sorta di paradosso linguistico. La nozione di cittadinanza, che nasce nella storia del costituzionalismo in funzione eminentemente eguagliatrice, per negare la rilevanza, ai fini dell’appartenenza all’unico popolo e del godimento dei relativi diritti, delle antiche distinzioni di sangue, di ceti e di corporazioni (tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge) si è trasformata, nella società mondiale di oggi, in cui gli scambi e i trasferimenti sono sempre più frequenti e intensi, in uno dei maggiori, se non nel maggiore fattore di disuguaglianza nell’ambito degli ordinamenti giuridici rimasti largamente legati all’idea dello Stato nazionale. Per converso, questi stessi ordinamenti si vanno aprendo lentamente, in conformità del resto all’originaria ispirazione universalistica propria delle idee fondanti del costituzionalismo, alla nuova concezione dei diritti umani universali e quindi di una sorta di “cittadinanza” universale. Così la Corte costituzionale ha da molto tempo chiarito, in tema di principio di eguaglianza, che “Il testuale riferimento dell’art. 3, primo comma, ai soli cittadini non esclude, in effetti, che l’eguaglianza davanti alla legge sia garantita agli stessi stranieri, là dove si tratti di assicurare la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo” (così, fra le altre, la sentenza n. 54 del 1979).
Significativo è anche il linguaggio con cui la Costituzione si riferisce alla società e alle istituzioni della società. Alle istituzioni nel loro insieme si riferisce per lo più con il termine “Repubblica” (la “cosa pubblica”, cioè di tutti coloro che vivono nel suo ambito) piuttosto che con quello di “Stato”. Quest’ultimo termine è usato piuttosto per accostarlo e contrapporlo a quelli che designano le unità infrastatali (“La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”: art. 114, primo comma; e v. tutto il titolo V della parte seconda, sia nella versione originaria, sia in quella riformata nel 2001), e per distinguere le competenze centrali da quelle regionali e locali.
Quando invece si parla non dell’aspetto istituzionale, ma di quello “sociale”, si usano termini come “Paese” (art. 3, 2º comma: “partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, o semplicemente “società” (Art. 4, secondo comma, sul dovere di “svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”, ovvero “collettività” (art. 32, sulla salute come “interesse della collettività” oltre che “fondamentale diritto dell’individuo”.
L’aggettivo “sociale” ricorre frequentemente nel testo. Non per definire la Repubblica (come nell’art. 1 della Costituzione francese: “La Francia è una repubblica “indivisibile, laica, democratica e sociale”; o nell’art. 20 di quella tedesca: “La Repubblica Federale Tedesca è uno Stato federale, democratico sociale”), ma certo per esprimere l’idea dello “Stato sociale”, cioè di una forma di organizzazione politica che non si limiti a svolgere una funzione di ordine e a garantire libertà “negative”, cioè la astensione da indebite interferenze statali, ma ha anche la funzione di promuovere giustizia, la giustizia sociale. Così nel titolo III della parte Prima, dedicato ai rapporti economici, l’”utilità sociale” e i “fini sociali” sono rispettivamente un limite alla libertà dell’iniziativa economica privata e gli scopi cui deve essere indirizzata e coordinata “l’attività economica pubblica e privata” (art. 41); deve essere assicurata “la funzione sociale” della proprietà (art. 42) e riconosciuta quella di una particolare forma di attività economica come la “cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata” (art. 45). L’”interesse generale” e l’”utilità generale” giustificano l’esproprio della proprietà privata (art. 42) e la socializzazione di imprese “di preminente interesse generale” (art. 43); il fine di “stabilire equi rapporti sociali” oltre che di “conseguire il razionale sfruttamento del suolo” fonda la disciplina della proprietà terriera. Il fine della “elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione” fonda il diritto dei lavoratori di collaborare alla gestione delle aziende (art. 46).
Fondamentale da questo punto di vista è l’impiego della parola “solidarietà” (“politica, economica e sociale”) per qualificare i “doveri inderogabili” che si accompagnano ai “diritti inviolabili” (art. 2); solidarietà che non si limita alla cerchia stretta di coloro che sono più vicini, ma investe in vario modo i diversi rapporti che si instaurano fra l’individuo e i suoi simili, e tra le diverse comunità, a tutti i livelli (e così nell’art. 119 come riformato nel 2001 la “solidarietà sociale” compare tra le motivazioni degli interventi speciali previsti a favore di determinate Regioni o enti locali).
Il costituzionalismo europeo, come si è ricordato, nasce e si sviluppa nell’ambito di entità statali a carattere nazionale o talora plurinazionale, intendendosi per nazione un insieme caratterizzato da lingua, cultura, tradizioni comuni. Ma nella storia contemporanea dell’Europa l’idea di nazione è stata anche alla base del nazionalismo, inteso e praticato spesso in forma esasperata, di “potenza” orgogliosa e bellicista (la guerra come strumento di affermazione della nazione), fino all’affermazione, nella prima metà del Novecento, dei regimi di tipo fascista.
La Costituzione repubblicana fa anch’essa bensì riferimento alla nazione, ma in modo diverso, diremmo parco, e non “nazionalista”. Così all’articolo 9 si tutela il “patrimonio storico e artistico della Nazione”; per l’articolo 67 “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione” (e qui forse c’è una qualche improprietà, se si pensa alla presenza di minoranze linguistiche e “nazionali”, fatte oggetto di specifica tutela nell’articolo 6 e nell’assetto delle Regioni ad autonomia speciale di cui all’art. 116); all’articolo 87 si afferma che il Capo dello Stato “rappresenta l’unità nazionale” (e qui giustamente la nazione compare in funzione di unità fra diversi); per l’articolo 98 “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”.
A sua volta la parola “Patria” compare solo due volte: nell’art. 52 a proposito del “sacro dovere” di “difesa della Patria”, peraltro inteso non in termini esclusivamente militari, come mostra fra l’altro la giurisprudenza costituzionale che vi ha ricondotto anche il fondamento del servizio civile volontario, come espressione di solidarietà (cfr. sentenze n. 228 del 2004, n. 119 del 2015); e nell’art. 59 sulle nomine dei senatori a vita tra cittadini “che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti”.
Altrettanto parco l’uso dei termini “Italia” e “italiani” (termini che oggi sono così largamente impiegati nel linguaggio corrente della politica, spesso con un’impronta sciovinista e nazionalista). L’aggettivo “italiano” appare riferito dall’ordinamento giuridico (art. 8, art. 10, primo comma), alla Costituzione (art. 10, terzo comma), alla bandiera (art. 12), agli italiani (di nazionalità) ”non appartenenti alla Repubblica” perché cittadini di altri Stati confinanti, che a certi effetti possono essere parificati ai cittadini italiani (art. 51, secondo comma). Il sostantivo “Italia” apre l’art. 1 con l’affermazione secondo cui “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, ma poi è usato una volta sola, molto significativamente, nell’art. 11, per affermare che ”l’Italia ripudia la guerra”, consente “alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni” e “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”: dunque in uno spirito tutt’altro che nazionalistico.
Facile il confronto contrappositivo con l’uso nazionalista e razzista del riferimento agli italiani e alla “pura razza italiana” nei documenti del fascismo (si veda il celebre “Manifesto degli scienziati razzisti” del 1938). E quanto alla parola “razza” – che qualcuno vorrebbe un po’ ingenuamente vedere soppressa nel testo costituzionale – basterà ricordare che essa è impiegata nell’art. 3 della Costituzione (“senza distinzione di razza”), allo stesso modo che in altri documenti internazionali, proprio e solo allo scopo di sancire il divieto di ogni discriminazione che si riconduca a concezioni razziste.
In definitiva, il linguaggio della Costituzione è anche quello della nuova fase della storia del costituzionalismo, improntata alle idee-forza dell’universalismo dei diritti, dell’eguaglianza tra tutti gli uomini, e della convivenza e collaborazione internazionale. Nei fatti, e a livello istituzionale, siamo ancora all’inizio di questa nuova era: ma la strada su cui muovere nel futuro è segnata.
In questo contesto cambia anche il significato di quel termine “sovranità” che il costituzionalismo ha recepito dalla storia che ne ha preceduto la nascita. La parola allude a qualcosa o qualcuno che sta sopra, a fronte del quale gli altri soggetti stanno sotto , sono i “sudditi”. Con l’avvento delle idee costituzionali di libertà, uguaglianza e democrazia, non c’è più un sovrano, né ci sono sudditi. Ci sono cittadini, sempre più cittadini del mondo oltre che di uno Stato. La “sovranità”, riferita al corpo sociale, perde il suo significato originario e diventa, all’interno di ogni Stato, potere diviso e condiviso, chiamato a garantire i diritti e a fare e amministrare giustizia. La “sovranità interna” dello Stato è necessariamente suddivisa e limitata: il “popolo”, cui essa appartiene, la esercita “nelle forme e nei limiti” della Costituzione (art. 1, secondo comma), quindi non è più sovranità in senso proprio.
Restava 1’idea della sovranità “esterna” dello Stato nell’ambito della comunità internazionale, di Stati superiorem non recognoscentes, ciascuno dei quali si pone in posizione di parità con tutti gli altri senza riconoscere alcuna autorità superiore, ed entrando in rapporto con gli altri solo attraverso contratti (i trattati) o con la guerra, come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Quella “sovranità” che l’art. 7 della Costituzione afferma con riguardo allo Stato e alla Chiesa cattolica, per sottolinearne la piena indipendenza reciproca.
Ma anche questa concezione della sovranità “esterna” è venuta meno, almeno a livello di principio, con la creazione di autorità sovranazionali (l’ONU), l’affermazione dei diritti universali e il divieto per gli Stati di farsi ragione da sé, perseguendo solo i propri interessi nazionali al di fuori di un contesto di convivenza internazionale basata sulla pace e la giustizia anche “fra le Nazioni”, come dice l’art. 11 della Costituzione. Ed è significativo che l’unico altro luogo in cui la Costituzione impiega il termine “sovranità” è proprio l’art. 11, e lo impiega per affermare la necessità di “limitazioni” della sovranità stessa. Non ha dunque più ragione di essere, nel costituzionalismo che si è affacciato alla fine della seconda guerra mondiale, nemmeno la piena sovranità esterna di Stati nazionali, chiamati solo a promuovere gli interessi specifici di ciascuna nazione. Non ha più giustificazione il nazionalismo, come lo abbiamo conosciuto fino a quel momento, e come nei fatti ancora da tante parti viene invocato e praticato.
Questo consente e giustifica fra l’altro, per l’Italia, la prosecuzione del cammino verso un’Europa davvero unita, anche politicamente, in cui gli interessi nazionali dei singoli Stati trovino limiti e armonizzazione nell’unità superiore dell’Europa (e infatti l’art. 11 della Costituzione ha sempre funzionato e continua a funzionare come “clausola europea” che consente, con semplici leggi ordinarie, di progredire sulla strada delle cessioni di sovranità a istituzioni comuni europee). E se si afferma, come ha affermato la nostra Corte costituzionale, l’esistenza di “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale (fra cui il nucleo essenziale dei diritti inviolabili dell’uomo) destinati a prevalere su ogni legge, anche costituzionale, interna o internazionale (cfr, ad es. la sentenza n. 238 del 2014), non è per rivendicare una “sovranità nazionale” ormai obsoleta, ma al contrario per affermare che i principi supremi del costituzionalismo sono ormai “patrimonio dell’umanità”, destinato ad essere salvaguardato e promosso da ogni Carta e da ogni Corte, nazionale o internazionale: principi che stanno a base di ogni convivenza umana, perché facenti capo non a questo o quel gruppo umano, a questa o a quella nazione, ma alla “comune umanità”.
- Questo intervento di Valerio Onida è avvenuto il 27 dicembre 2019 in occasione del convegno “Il lessico delle Istituzioni” organizzato dalla Società per gli studi di storia delle Istituzioni e dal Dipartimento di Scienze umanistiche dell’università della Tuscia (27,28 dicembre 2019). Il testo è stato successivamente pubblicato in “Le parole del potere, il lessico delle istituzioni in Italia”, a cura di Guido Melis e Giovanna Tosatti, Il Mulino, 2021.