di Sandro Staiano

«Potrei anche guarire», mi ha detto a telefono con la voce che pareva affannata per quell’umido calore dell’anomalo novembre dell’anno scorso, e ho rivisto incresparsi il suo sorriso unico, aperto ironico amaro, possibile solo negli incroci inusuali del suo sangue mediterraneo.

Una decina d’anni prima, a Milano, una sera, in uno di quegli interludi stanchi dopo la sessione di un convegno, aveva finito col parlarmi di molte cose della sua vita, come se fosse impegnato a ricostruirne il senso generale e avesse bisogno di un occhio esterno o almeno di un punto di appoggio per far leva nel discorso.

Per me un’epifania.

Fino ad allora il nostro rapporto era stato cordiale, ed era diventato più intenso in un’occasione di lavoro comune, lui presidente dell’AIC, io nel direttivo.

Prima ancora, era stato per me come per noi tutti, i più giovani, uno dei grandi costituzionalisti della generazione di mezzo, tra i padri testimoni diretti della Costituente e le recenti generazioni, che, onda su onda, riaffrontavano i grandi temi del metodo giuridico e del costituzionalismo, segnando talvolta ardimentose discontinuità. A lui guardavamo con interesse per il suo percorso intellettuale e per la saldezza ragionevole del suo metodo, e lo incrociavamo nelle nostre prove innanzi alla comunità scientifica, con qualche tremore quando lo avevamo come interlocutore più immediato, conoscendone il rigore e il carattere gentile ma diretto della critica.

Da presidente dell’AIC, si era trovato, tra l’altro, nel tornante di una fase transitoria in cui alle società scientifiche era attribuita la valutazione e la classificazione per fasce delle riviste: può immaginarsi di quali, più o meno cortesi, sollecitazioni fosse fatto segno o di quali richiami alla tradizione o ai quarti di nobiltà scientifica, di quante mozioni degli affetti; e tuttavia fu di un rigore assoluto, orientato solo dall’onestà del suo giudizio messo a confronto con il nostro, in memorabili riunioni del direttivo dopo faticose istruttorie.

Ma quella sera milanese fu rivelatrice per me del tratto più proprio di Valerio Onida giurista, un tratto che va messo in luce per comprenderne l’autentica connotazione (e solo questo giustifica la testimonianza personale, che subito faccio uscire di quadro): Valerio Onida era un giurista integralmente orientato all’umanità e alla moralità del diritto, umanità e moralità come pietra di paragone con la quale saggiava il pregio e la coerenza del progetto etico che tenacemente perseguiva.

Se si pone mente alle radici, si riconoscono in lui i segni, perduranti e nitidi, dell’appartenenza alla pianta rigogliosa dell’associazionismo cattolico milanese del dopoguerra – Valerio Onida fu intensamente attivo nella Fuci – dalla quale si dipartivano i rami dell’impegno sociale, della disponibilità a impiegare le proprie specifiche competenze al servizio di quell’impegno, e che prendeva linfa dai giovani professori, di formazione e testimonianza cattolica, che avevano partecipato alla scrittura della Costituzione.

Ne conseguiva la centralità della dimensione dei doveri come condizione necessaria alla garanzia dei diritti: e non si trattava solo di una lettura dell’intreccio del tessuto costituzionale, si trattava, più impegnativamente, di un progetto personale di vita.

Sicché era per lui naturale mettere a disposizione degli ultimi tra gli ultimi, dei carcerati, soprattutto di quelli più poveri e meno capaci di proteggersi autonomamente (la stragrande maggioranza degli astretti nei luoghi di pena), le proprie competenze tecniche insieme al suo conforto personale.

Ed era congruente con tale visione l’idea dell’immediata e piena efficacia della Costituzione, come sistema valoriale tradotto in norme, nei confronti di tutti i titolari di pubblici poteri, segnatamente nei confronti delle pubbliche amministrazioni (un tema di suo precoce interesse, trattato con la monografia del 1967, Pubblica amministrazione e costituzionalità delle leggi, la quale non avrebbe mai avuto un’edizione definitiva, come nel mondo accademico di allora di frequente accadeva, essendo consigliate ai giovani grande prudenza e sorvegliata continenza editoriale), e della capacità di tali norme – grazie all’opera dei giuristi, rivolta a rivisitare il dibattito costituente, a considerare con acribia la giurisprudenza costituzionale interna, a costruire itinerari comparativi con altri sistemi nazionali e a scrutare gli sviluppi delle garanzie nei sistemi sovranazionali, nell’ordinamento europeo in ispecie – di pervadere e modellare l’ordinamento e la società sottesa, un obiettivo per il quale condurre una lotta, la lotta per la Costituzione. E a quanti vedevano derivarne un’«ombra sulla Costituzione», Onida poteva attribuire la qualifica di «apocalittici», come testualmente fece, senza rischiare di essere annoverato tra gli «integrati» (in un’opposizione molto diffusa a quel tempo), essendo egli tra i grandi sostenitori del programma di trasformazione che la Costituzione imponeva e che era reso leggibile anche grazie alla sua scienza.

Come congruente era il suo metodo (o, per adoperare un lessico meno impegnativo, non volendo mettere in campo un lemma e un concetto che evocano scenari mobili, incerti e controversi, il suo modo di esercitare il difficile mestiere di interprete del diritto): un argomentare inesorabile nella consequenzialità delle inferenze deduttive e induttive, senza tralignamenti e deviazioni arbitrarie, sia negli scritti scientifici sia nella pratica giudiziaria, come avvocato e, quando era alla Corte, come “autore”, nella sede collegiale, da giudice e da Presidente, o come incaricato della redazione delle sentenze. La limpidezza, si potrebbe dire l’onestà, di tale approccio, infatti, era il mezzo più certo e più diretto per assicurare la messa in opera dei princìpi, dei princìpi costituzionali in primo luogo: una teoria sicura e una dommatica forte e lineare messe al servizio del processo di inveramento della Costituzione.

Una teoria e una dommatica per le quali egli aveva forgiato i propri strumenti, quanto al diritto costituzionale, sotto l’influenza e nell’adesione alla visione “modernizzatrice” di Giorgio Balladore Pallieri e di Egidio Tosato (che aveva assegnato, nel 1957, a quel giovane così promettente e così impegnato, la tesi di laurea sul bilancio dello Stato, un tema innovativo e “difficile”; quel lavoro aveva aperto un itinerario di ricerca sfociato, oltre dieci anni dopo, nel libro Le leggi di spesa nella Costituzione), e, quanto al diritto amministrativo, nel rapporto con Antonio Amorth, e, nella formazione teorica fortemente raccordata all’esperienza pratica, “a bottega” con Enrico Allorio, presso il quale aveva iniziato l’attività di avvocato.

Valerio Onida è dunque giurista dalle molte dimensioni, una personalità complessa e tuttavia limpida, per essere segnata da una linea di coerenza molto salda.

E si trova in alcuni dei campi di tensione maggiore della vicenda repubblicana, nell’impatto coi quali tutte tali dimensioni sono chiamate in causa.

Segue la contrastata e ondivaga attuazione del principio di autonomia territoriale e ne è protagonista, partecipando come consulente giuridico alla formazione del primo Statuto della Lombardia e a supporto dell’attività legislativa della stessa Regione, e poi, ad analogo titolo, entrando a far parte di comitati tecnico-scientifici e di comitati legislativi per la Regione Marche, per la Provincia autonoma di Trento, e di organismi preposti all’attuazione degli Statuti speciali della Valle d’Aosta e della Sardegna. Difende sovente in giudizio le Regioni nel contenzioso con lo Stato.

Nello stesso ambito, la sua produzione scientifica è impressionante per quantità e qualità, occupando gran parte della sua bibliografia soprattutto dai primi anni Settanta fino alla metà degli anni Novanta, quando è eletto giudice costituzionale. Eppure, parlando di se stesso, egli dichiara di non aver molto partecipato al dibattito dottrinale sulle autonomie locali. Affermazione che sarebbe sorprendente, se non si spiegasse, oltre che con un certo ironico riduzionismo eufemistico della propria opera, con il carattere laterale, non integrato, del suo lavoro analitico rispetto a quella scuola, a lungo dominante, la quale riteneva perseguibile un obiettivo di efficienza generale dell’amministrazione mettendo tra parentesi il dato normativo costituzionale, o comunque riducendone l’efficacia conformativa nel considerarlo come «base generale» di riferimento. Un approccio estraneo a Valerio Onida. E, invero, egli non ha fatto parte della Commissione Giannini, istituita a supporto del processo di decisione legislativa conducente al DPR n. 616 del 1977, non si può sapere se per una chiusura del Governo del tempo, nella scelta dei suoi interlocutori, entro il recinto incomunicante di una parte molto connotata della dottrina, o se per idiosincrasia personale dello stesso Onida (o per la convergenza di entrambi i fattori).

Alla Corte giunge con la reputazione di tenace “avvocato delle Regioni” e si trova nel pieno della fase aperta con le riforme “a Costituzione invariata”, sorvegliata dal giudice costituzionale nella portata innovativa che rischia di tracimare dagli argini, e poi nella fase successiva alle revisioni del 1999 e del 2001, quando, innanzi a un intervento velleitario e incompiuto (la legge costituzionale n. 3 del 2001 manca financo delle norme transitorie), è la Corte a dover definire i tratti del sistema delle relazioni Stato-Regioni.

Il suo sguardo, lungo queste tre linee di osservazione, è acutissimo nel cogliere il mancato compimento del disegno autonomistico prefigurato dall’art. 5 Cost., per i fallimenti del legislatore ordinario nel definire i campi materiali e i princìpi, nel costruire sedi efficienti di confronto tra centro e periferia, e per l’orientamento centralistico della Corte nel giocare la sua “supplenza”. E nel valutare come la crisi finanziaria con epicentro nel 2008, gli scandali per le malversazioni emerse dagli apparati politico-amministrativi di alcune Regioni, il collasso di comparti cardine come la sanità regionale sotto la pressione della pandemia abbiano segnato un vistoso vulnus della stessa idea regionalista e della sua pratica.

Il secondo campo di tensione è quello del riformismo costituzionale dissolutivo, che trova credito, in diverse stagioni, nel dibattito scientifico e nelle pulsioni provenienti dai decisori politici.

Valerio Onida è sulla linea di resistenza contro le spinte a una disarticolazione della forma di governo attraverso una torsione monocratica dell’Esecutivo (sul modello di quella che si è verificata prima nei Comuni e poi nelle Regioni, con l’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti delle Giunte), e all’affermazione di una democrazia di investitura, non responsiva, spinta fino ai confini del plebiscitarismo.

L’Onida testimone dei valori costituzionali costruisce un’opposizione tenace di tipo politico e morale, assumendosene sempre apertamente e univocamente il carico, anche attraverso un’intensa attività pubblicistica sulla stampa periodica (la sua velocità di elaborazione di contributi giornalistici anche complessi, resa possibile dalla chiarezza e dalla linearità del suo pensiero, è quasi mitica: si narra del suo dettare a telefono, senza intoppi e senza ripensamenti, un articolo al redattore di un importante quotidiano economico). L’Onida scienziato della Costituzione porta a sostegno di tali posizioni il suo pensiero e le sue conoscenze sedimentate, consegnate a saggi di grande spessore ma resi in forma assai piana (come nel caso di Costituzione: perché difenderla come riformarla, scritto nel 1995 in dialogo con Giancarlo Bosetti), e poi trova il registro intermedio necessario a divulgarle conservandone il rigore. Esemplare il piccolo libro scritto nel 2016 con Gaetano Quagliariello, Perché è saggio dire no. La vera storia di una riforma che ha “cambiato verso”, con il quale Onida si mostra capace di confronto con posizioni ideologicamente distanti identificando punti di convergenza pratica: è il metodo dei costituenti che egli ha introiettato nel suo studio della Costituzione come prodotto storico (le voci Costituzione italiana e Costituzione provvisoria, entrambe del 1990, nel Digesto delle Discipline pubblicistiche; I dibattiti della Costituente, in Diritto e culture della politica, 2004; Il progetto costituente. La Costituzione come progetto, in Quando i cattolici non erano moderati – Figure e percorsi del cattolicesimo democratico in Italia, 2009). L’Onida osservatore dell’applicazione del diritto «nella realtà», come amava dire, segnala di ogni proposta le conseguenze da attendersi in caso di messa in opera, non disconoscendo la validità di singole soluzioni, ma molto determinato nel rilevare i guasti da attendersi con certezza dall’insieme delle proposte di “revisione organica” o “ampia” della Costituzione. E non esita a impegnarsi da avvocato, come quando promuove, innanzi al Tribunale di Milano, un’ardita azione di accertamento della violazione del diritto alla partecipazione come elettore al referendum confermativo del 2016, in ragione dell’eterogeneità del quesito. Soccombe in quel giudizio, ma le sue ragioni contribuiscono a definire il quadro dell’opposizione alla “revisione ampia” della Costituzione, opposizione che avrà infine successo, con l’esito negativo del referendum.

Il terzo campo di tensione è quello della giurisdizione e dell’organizzazione della giustizia.

La posizione di Valerio Onida dal punto di vista del costituzionalismo è sintetizzata in un passaggio della Prolusione all’Università di Roma Tre del 19 gennaio 2005: «… La politica come mero arbitrio, e il giudizio come improprio strumento di governo, sono i due pericoli contrapposti». Ma gli sembrerà a lungo – avendo egli propensione a rimanere fermo nei suoi convincimenti – che, nel clima culturale italiano dominante, «tentazioni ed episodi di uso improprio dello strumento giudiziario al di là della sua funzione di garanzia si diano, certamente, ma per lo più sul terreno di questioni prive di immediato e intenso impatto politico generale». Solo molto più avanti nel tempo constaterà, incidentalmente, la torsione impressa alla forma di governo dalla stagione delle inchieste giudiziarie all’inizio degli anni Novanta, cui era conseguita una regressione del sistema dei partiti, aprendosi «un’era di personalizzazione leaderistica della politica, di caccia al voto sulla base non di idee-forza, ma di sollecitazioni alle emozioni superficiali della “gente”, di contrapposizioni esasperate» (Quel “buon tempo antico” lontano dai principi della Costituzione, www.casadellacultura.it, ma siamo ormai al 2018, e in una sede editoriale un po’ discosta).

Ha invece sempre ben chiaro – l’Onida osservatore della realtà pratica del diritto – che la cultura e la formazione dei magistrati devono essere sottratte alla sfera di autoreferenzialità della magistratura. Quando diviene, nel 2011, per primo, Presidente della Scuola superiore della Magistratura, difende, con tutta la determinazione e la fermezza di cui è capace, il ruolo e l’autonomia di quella struttura di fresca istituzione, della quale non pochi, in sede politica e tra le rappresentanze istituzionali dei giudici, auspicano il pronto fallimento. Egli invece consolida rapidamente la Scuola, ne fa una sede di alta formazione, nel proficuo rapporto tra magistrati, professori e discenti, e nell’apertura all’esterno, ai professori universitari.

Tutto questo magistero giuridico e morale, e questa testimonianza, costituiscono il ricchissimo lascito di Valerio Onida, che non potrà scomparire.

Mentre tace la sua voce, che sempre accompagnava i fatti dell’esperienza costituzionale. Questa ci mancherà. E sentiremo subito, noi costituzionalisti, riaprirsi la ferita, quando terremo, nel prossimo autunno, il nostro convegno annuale sul tema Lingua Linguaggi Diritti: è del 2021 il suo contributo Le parole della Costituzione repubblicana alla raccolta Le parole del potere. Il lessico delle istituzioni in Italia; ed echeggerà la domanda, che chissà quante volte ripeteremo nel tempo: cosa ne avrebbe detto Valerio Onida?