Post del Comitato Direttivo

La “cultura” della giurisdizione, a partire da quella costituzionale.

Gennaio 25, 2025

Ci sarebbe davvero da chiedersi in che modo, nel nostro Paese, si possa ristabilire un rapporto istituzionale meno confliggente tra la magistratura e gli organi politici (Parlamento e Governo, naturalmente) rispettando senza riserva alcuna i rispettivi ambiti di competenza così come configurati dalla nostra Costituzione. Alla politica competono scelte che attengono al perseguimento di comportamenti delittuosi; alla magistratura la valutazione dei fatti e l’accertamento della responsabilità ai quali applicare eventualmente le sanzioni previste direttamente dagli organi politici adottate per via legislativa.

È davvero necessario modificare la struttura costituzionale che non distingue nel campo dell’accertamento penale, al fine di preservare autonomia e indipendenza dell’apparato giudiziario proprio rispetto al potere politico, la carriera dei magistrati giudicanti da quella dei magistrati inquirenti?

Nel “passaggio” da un ruolo all’altro, tuttavia, le norme dell’ordinamento giudiziario – che sono attuative di quelle costituzionali, e dunque non sono in grado di derogare legittimamente a queste – hanno via via stabilito rigidi meccanismi regolatori del passaggio da un ruolo all’altro, sulla base di valutazioni che competono all’organo di autogoverno della magistratura ordinaria, il Consiglio Superiore della Magistratura. Organo unico – quest’ultimo – che ricomprende, per quel che attiene alle sue attribuzioni riferibili alla carriera tanto di giudici veri e propri quanto di pubblici ministeri, anche al fine di stabilire e prevedere sanzioni disciplinari. Così come è unica la modalità di reclutamento dei magistrati ordinari, nessuno escluso: il pubblico concorso. Queste scelte di fondo, di livello costituzionale, presuppongono una visione della giurisdizione e una cultura dell’attività giurisdizionale rispettosa, quale che sia la funziona esercitata individualmente dal singolo magistrato, della legge e, ancor prima, dei principi costituzionali che la rendono legittima e, dunque, applicabile, ovvero illegittima e, dunque, annullabile – con alcune accortezze procedurali – dalla Corte costituzionale.

Quest’ultima, non è un organo posto al vertice della magistratura, ma un organo costituzionale ad hoc, alla cui formazione concorrono oltre alle supreme magistrature ordinaria e amministrative (Corte di cassazione, Consiglio di Stato e Corte dei conti), tanto il Capo dello Stato quanto il Parlamento. Colpisce che in questi concitati momenti di contrapposizione, che vede il Governo in carica impegnato ad approvare una riforma costituzionale che introduce la c.d. separazione delle carriere tra i magistrati ordinari – e che prevede due distinti Consigli Superiori della Magistratura, distinguendo nettamente giudici e pubblici ministeri, e che, pur tuttavia, prevede per entrambi un giudice disciplinare costituito ad hoc (l’Alta corte) – proprio il Parlamento, dove ovviamente gioca un ruolo di protagonista l’attuale maggioranza di Governo, fatichi da mesi a fare quel che dovrebbe. E, cioè, eleggere quattro giudici costituzionali, senza dei quali la Corte agisce in una composizione ridotta, appena sufficiente per poter assolvere le sue delicate funzioni di garanzia. Se, per certi versi, è innegabile che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura abbia dato l’impressione di funzionare in modo che può definirsi e considerarsi inopportuno e sconcertante, per tante svariate ragioni (che, in realtà, non riguardano la “gestione” delle due categorie di magistrati e neppure i procedimenti disciplinari nei loro confronti), occorrerebbe ugualmente riconoscere che il potere politico da tempo non fornisce un esempio di correttezza istituzionale, anche quando si tratta di assumere deliberazioni che competono esclusivamente ad esso e che appaiono fortemente condizionate da una visione strumentale della giurisdizione, a cominciare da quella costituzionale.

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