Riflessioni pensando a Valerio
Le prime parole della Corte sull’autonomia differenziata e l’allentamento dei lacci processuali
Alessandro Lauro*
Forse non è del tutto prudente commentare un comunicato dell’Ufficio stampa della Corte costituzionale. Per quanto preciso e circostanziato, si tratta di un atto che non può dare pieno conto delle implicazioni, delle sfumature di ragionamento che la Consulta trasfonderà nella sua sentenza.
C’è però un elemento che pare assai rilevante e del tutto inconfutabile: la Corte ha accolto, ancorché parzialmente, i ricorsi.
Si tratta sicuramente di un aspetto secondario del dibattito pubblico che attornia il regionalismo differenziato e, tuttavia, il profilo processuale avrebbe potuto assumere rilevanza assoluta nella vicenda.
In base alla Costituzione (art. 127), alle fonti complementari di rango costituzionale (legge costituzionale n. 1 del 1948) e ordinario (legge n. 87 del 1953) ed alla giurisprudenza costituzionale che le ha interpretate, l’impugnazione di una legge statale da parte delle Regioni incontra limiti più stringenti di quanto non avvenga per lo Stato nei confronti delle leggi regionali. Le Regioni infatti possono anzitutto dedurre la violazione di competenze proprie, lese dalla legge nazionale, e sono autorizzate ad invocare altri parametri normativi di riferimento solo quando i vizi invocati esibiscano una natura ridondante sulla stessa sfera di attribuzioni.
In concreto, ciò significa che il Governo può impugnare le leggi regionali per qualunque motivo paia opportuno. Viceversa, una Regione deve dimostrare che la violazione da parte della legge statale di parametri diversi dal riparto delle competenze (ad es., il principio di uguaglianza, un qualunque diritto fondamentale dei cittadini, addirittura regole attinenti alla produzione normativa statale) abbia un’incidenza sui poteri della Regione.
Si tratta di un canone che invero resta assai nebuloso nella giurisprudenza costituzionale: non è sempre chiaro quando la Corte ravvisi tale ridondanza e quando no. Sta di fatto che, in assenza di questo riconoscimento, i motivi di ricorso sono destinati a cadere e a divenire inammissibili.
Il vaglio sulla rilevanza si coniuga con un’altra verifica compiuta dalla Corte: l’esistenza di un interesse al ricorso da parte della Regione, ovvero della possibilità che l’ente ricorrente consegua un’utilità dalla definizione del giudizio di costituzionalità in via principale.
I ricorsi delle Regioni contro la legge n. 86 del 2024 (cd. Legge Calderoli) hanno superato, almeno nei loro elementi essenziali, questi varchi processuali.
L’elemento è dirimente: talvolta la Corte costituzionale si è barricata dietro le condizioni processuali per evitare di entrare nel merito di questioni spinose, altamente delicate dal punto di vista politico. Sicuramente, il regionalismo differenziato era una di queste ed effettivamente qualche elemento per fuggire dalla decisione la Corte poteva trovarlo. La natura procedurale della legge avrebbe potuto escludere la natura del ricorso, così come non è detto che i vari parametri evocati per ridondanza avrebbero potuto trovare ingresso nel giudizio, proprio per la medesima ragione.
Coraggiosamente, la Corte è entrata nel merito e, facendolo, sembra aver segnato anche una possibile traiettoria futura per la giustizia costituzionale: il giudizio in via principale, ancorché giudizio di parti, può non riguardare solo interessi di parte. Ampliare le possibilità delle Regioni e riequilibrare la bilancia nell’accesso alla giustizia costituzionale può avere una fondamentale importanza per l’intero sistema e per riaffermare l’idea che le Regioni sono parti della Repubblica e non per forza antagoniste della sua unità, anzitutto giuridica.
A dimostrazione di questo, la Corte ribadisce di essere competente a vagliare la legittimità delle singole leggi di differenziazione che potranno essere adottate sul fondamento dell’art. 116 e della legge di attuazione (ampiamente incisa dalla Consulta), «qualora venissero censurate con ricorso in via principale da altre regioni o in via incidentale».
L’indicazione appare rilevante: alle altre Regioni sembra riconosciuta la possibilità di contestare le leggi di ratifica dell’intesa fra lo Stato ed una Regione, forse a prescindere dai requisiti di ordine processuale di cui sopra, sostanzialmente identificabili in re ipsa.
È chiaro che le parti del processo in via principale sono parti anzitutto politiche (il Governo nazionale da un lato, le giunte regionali dall’altro) e dunque qualche abuso di natura strumentale è sempre possibile. Ciononostante, allargare le possibilità di accesso alla Corte è un segnale positivo, soprattutto in un’epoca in cui il bisogno di giustizia costituzionale è sempre più avvertito e la necessità di ricomporre interessi divergenti nel quadro giuridico-costituzionale diventa ineludibile, stante l’incapacità di mediazione della classe politica.
Diversamente da quanto potrebbe apparire in superficie, un contenzioso Stato-Regioni “sano” non danneggia l’unità della Repubblica, ma semmai la rinforza, tracciando le coordinate necessarie a mantenere in equilibrio le istanze locali e gli interessi della Nazione tutta.
In attesa di leggere una sentenza che sarà capitale nella storia repubblicana, per il momento è giusto salutarne con favore l’imminente arrivo.
* Università Ca’ Foscari di Venezia – Université Paris Panthéon Assas