Riflessioni ad alta voce

La riforma della giustizia del Governo Meloni

Marzo 6, 2025

TESTO DELL’INTERVENTO ESPOSTO IN OCCASIONE DELLA ASSEMBLEA APERTA ORGANIZZATA DALLA GIUNTA ESECUTIVA SEZIONALE DELL’ANM DI BRESCIA SUL TEMA: LA RIFORMA COSTITUZIONALE, PROPOSTA DI LEGGE C. 1917 “NORME IN MATERIA DI ORDINAMENTO GIURISDIZIONALE E DI ISTITUZIONE DELLA CORTE DISCIPLINARE”

27 Febbraio 2025, Aula Polifunzionale del Palazzo di Giustizia di Brescia

Arianna Carminati*

Per riflettere sulla proposta di riforma in materia di giustizia avanzata dall’attuale Governo partirei da una breve premessa sull’inopportunità (a mio avviso costituzionale, politica, e sociale) che il Parlamento e il Paese si concentrino oggi su una riforma costituzionale del CSM come quella contenuta nel d.d.l. C1917, già licenziato dalla Camera dei deputati.

La separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti era, invero, un intervento annunciato nel programma elettorale della coalizione di centrodestra e ribadito dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel discorso pronunciato nel 2022 alle Camere in occasione del voto di fiducia. Si tratta dunque di una “promessa agli elettori”, come si usa dire. L’obiettivo dichiarato fin da allora è quello di intervenire sul Titolo IV parte II della Costituzione per contrastare il fenomeno del “correntismo” e per rafforzare la credibilità della magistratura italiana.

Tuttavia, questo progetto è stato inizialmente accantonato a favore di altre riforme istituzionali, come il c.d. premierato e l’autonomia differenziata. Solo nel maggio dello scorso anno il Governo è passato, anche su questo terreno, dalle parole ai fatti, depositando il citato disegno di legge in Parlamento. Negli ultimi mesi, poi, complice il rallentamento subito dalle altre riforme, la maggioranza di centro destra ha accelerato l’iter legislativo, tanto che il testo è già stato approvato alla Camera senza emendamenti e ha iniziato il suo esame al Senato. Il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha inoltre dichiarato che la riforma costituzionale sarà completata entro l’estate, pur riconoscendo che non vi sono i numeri in Parlamento (vale a dire la maggioranza dei 2/3) per evitare un eventuale referendum popolare.

 

Un dibattito polarizzato sulla riforma costituzionale

Voglio anzi tutto fare una considerazione di tipo formale (ma che è anche sostanziale): si tratta di riforma costituzionale, una tipologia di decisione parlamentare che, come insegniamo agli studenti spiegando gli aggravi procedurali previsti dall’art. 138 Cost., richiederebbe di essere presa per quanto possibile fuori da una logica di parte, da una logica di stretta maggioranza.

Basti pensare che un tempo, addirittura, gli Esecutivi non “osavano” presentare disegni di legge di riforma costituzionale, lo facevano solo i parlamentari. Ormai la prassi – coi Governi Berlusconi, Renzi, etc. – è stata decisamente sdoganata. Ma sono proposte, quelle governative, che finora quasi mai (con l’eccezione del c.d. pareggio di bilancio in Costituzione, approvato su iniziativa del Governo Draghi) hanno avuto successo. Questo esito deve fare riflettere sull’opportunità di spaccare il Paese e di fare della Costituzione terreno di scontro politico da conquistare a “colpi di maggioranza”, e per di più rispetto ad una materia così delicata come l’assetto della magistratura ordinaria.

E non appare essere nemmeno appagante, in questo senso, la prospettiva che poi sarà il popolo a decidere col referendum, spesso invocata come garanzia democratica. Ma si tratta di un epilogo, invero, solo apparentemente democratico se il momento referendario – in cui il popolo ha effettivamente l’ultima parola, ma solo per dire «sì» o «no» – non sia stato preceduto da un confronto il più possibile aperto e dialogico tra le parti politiche, con le istituzioni di riferimento, con la società civile. In questo senso, il fatto che oggi sia in atto uno sciopero della magistratura di queste proporzioni non è affatto un buon segno, così come non lo sono i toni che stanno accompagnando questa proposta, a partire da quelli usati dal Ministro della Giustizia e che sanno di “rivalsa” nei confronti della magistratura, in particolare di quella requirente.

Ma non solo, basti pensare alle reazioni di questi ultimi giorni da parte di esponenti di primo piano del Governo alla notizia della condanna al sottosegretario Delmastro per violazione di segreto d’ufficio: una condanna che è stata pronunciata da un giudice respingendo la richiesta di assoluzione avanzata dal pubblico ministero. Quindi, un episodio che dovrebbe essere portato ad esempio di distanza della magistratura giudicante da quella requirente, viene invece utilizzato dall’attuale maggioranza come ulteriore argomento per sostenere che ci sarebbe bisogno di separare le loro carriere.

Tornando al referendum, e alla opportunità di consegnare la decisione al popolo, alle considerazioni già fatte mi preme aggiungere e ricordare che l’elettorato si è già recentemente espresso nel 2022 con alcuni referendum abrogativi su molti dei temi ora riproposti nel d.d.l. di riforma costituzionale, sia pure affrontati a livello di legislazione ordinaria. Faccio riferimento ai cosiddetti quesiti referendari denominati «per una “giustizia giusta”», in modo alquanto fuorviante, i quali hanno mancato il quorum partecipativo di cui all’art. 75 Cost. La gente, gli elettori, quindi, non hanno ritenuto di votare su questi argomenti, il che mette in questione la credenza che siano questioni effettivamente popolari.

Ciò che è sicuramente popolare è la percezione diffusa del malfunzionamento della giustizia. Ma la giustizia contro la quale impattano maggiormente le persone è la giustizia civile, che è completamente fuori dal discorso attuale; ovvero la giustizia amministrativa attraverso la quale far valere le posizioni giuridiche contro le decisioni pubbliche. Dell’autonomia e indipendenza dei giudici amministrativi non si parla affatto nella proposta di riforma, e invece sarebbe un tema urgente e, questo sì, costituzionalmente rilevante.

Così come, un po’ paradossalmente, il Governo, mentre spinge per una riforma che promette di valorizzare l’indipendenza dei giudici rispetto ai pubblici ministeri e dei magistrati tutti rispetto al fenomeno del “correntismo”, proprio in questi giorni ha congelato per decreto una disposizione che riguarda una categoria di magistrati di cui la politica parla volutamente poco, ossia i magistrati che, a dispetto delle carenze di organico (ad oggi se ne contano 155) vengono collocati fuori ruolo, per assumere incarichi extragiudiziari all’interno di numerosi organi e enti e, soprattutto, all’interno dei ministeri. È chiaro che questa vicinanza con il potere politico può rappresentare un problema sia in termini di indipendenza nell’esercizio della funzione – quando il magistrato, dopo l’esperienza ministeriale nella quale ha cooperato per la stesura di norme e progetti di riforma, rientri a svolgere le sue funzioni – sia per quanto riguarda la progressione in carriera, specie con riferimento al riconoscimento di incarichi direttivi. La norma contro le c.d. porte girevoli, contenuta nella c.d. riforma Cartabia (legge n. 71 del 2022), prevedeva il divieto per il magistrato rientrato in servizio dopo l’incarico di esercitare attività giurisdizionale per un anno e il divieto di assumere incarichi ai vertici degli uffici per altri tre anni. Tale disposizione è stata congelata, in questi giorni, con il decreto c.d. milleproroghe.

Possiamo dire, con una battuta, che il Governo separa le carriere dei magistrati ma non si vuole separare dai “suoi” magistrati consulenti che poi avranno buone chance di concorrere con successo per le posizioni di vertice negli uffici giudiziari.

 

I contenuti della proposta riforma costituzionale

L’obiettivo dichiarato d.d.l. C1917 è quello di garantire la qualità e l’efficienza del processo penale, e soltanto di quello, verrebbe da dire. Si sostiene, in particolare, che per attuare pienamente l’art. 111 della Costituzione sia necessario intervenire su altre disposizioni costituzionali, anziché, come avviene di norma, agire attraverso la legislazione ordinaria. Inoltre, si afferma che, a tale scopo, sia indispensabile la separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudice. Tuttavia, sarebbe opportuno chiarire se il problema che si intende risolvere riguardi realmente la separazione delle carriere – che, peraltro, è già in gran parte attuata, soprattutto dopo i limiti imposti dalla già citata riforma Cartabia – o piuttosto la distinzione tra le rispettive funzioni.

Per quanto riguarda la separazione delle carriere, l’attuale maggioranza sceglie la soluzione più radicale, prevedendo l’istituzione di due distinti CSM, anziché adottare un modello meno drastico, come quello di un unico Consiglio articolato in due sezioni, proposto in diverse occasioni negli ultimi anni e sostenuto da numerosi studiosi, inclusi autorevoli costituzionalisti. A ciò si aggiunge l’introduzione del sorteggio puro per i componenti togati e di un sistema di selezione misto per quelli laici. Il probabile effetto di queste scelte sarà un indebolimento del CSM come interlocutore istituzionale, una crescente burocratizzazione del suo operato e una sua trasformazione in quello che è stato efficacemente descritto come una sorta di consiglio di amministrazione dell’ordine giudiziario.

Rispetto al problema del “correntismo”, si adotta la soluzione del sorteggio integrale dei membri togati (anche in questo caso molto più drastica di quelle circolate in questi anni e rispetto alla stessa proposta avanzata dall’Unione delle Camere Penali attraverso un’iniziativa di legge popolare). Per i componenti laici, invece, è prevista un’estrazione, ma solo in una seconda fase. Su questo punto, la politica ha manifestato preoccupazione per il rischio di perdere il controllo su questi membri, tanto che è stato tentato un emendamento per modificare il meccanismo, senza però riuscire a scalfire il testo del Governo, rimasto blindato nella prima lettura parlamentare. L’iniziativa emendativa rivela in ogni caso nuovamente tutta l’ipocrisia di una classe politica che, da un lato, teme di perdere la propria influenza sui consiglieri laici e, dall’altro, giustifica la riforma come strumento per spezzare le dinamiche associative della magistratura, cercando così, anche in questo caso, di congelare le influenze dei magistrati mentre difende strenuamente le proprie.

Anche con l’attuale versione, peraltro, si corre rischio che si crei un irragionevole divario qualitativo e di “peso specifico” tra laici, che comunque una selezione intuitu personae a monte l’avranno, e i togati, che saranno invece scelti a caso. Se poi l’obiettivo è realmente quello di arginare il correntismo, questa soluzione potrebbe rivelarsi addirittura controproducente: questi «consiglieri “per caso”» (N. Zanon) potrebbero anzi risultare ancora più vulnerabili alle influenze esterne o interne, avendo perduto qualsiasi legame con la base elettorale (oggi rappresentata dai rispettivi collegi ) e potendo agire senza un chiaro mandato rappresentativo e senza perciò avvertire alcuna responsabilità per il proprio operato, nemmeno indiretta o diffusa, di fronte alla comunità dei loro colleghi.

Un altro punto critico è l’istituzione di un organo ad hoc, l’Alta Corte di Disciplina, per la valutazione della responsabilità disciplinare dei magistrati. Tale scelta viene giustificata con la necessità di superare l’eccessiva autoreferenzialità del sistema attuale, un’argomentazione che, tuttavia, sembra smentita dai dati disponibili, che dimostrano come sia improprio parlare di una vera e propria “giustizia domestica” impostata su basi eminentemente corporative (C. Castelli). Inoltre, si invoca la necessità di eliminare la presunta commistione tra funzioni giurisdizionali e amministrative all’interno del CSM.

Tuttavia, come si fa notare (R. Romboli) l’istituzione dell’Alta Corte, da un lato, non appare risolvere queste criticità, soprattutto alla luce della sua composizione. Il numero dei componenti chiamati a giudicare in materia disciplinare aumenta da 6 a 15, e mantiene in ogni caso la maggioranza a favore della componente togata (9 su 15). Il fatto poi che possano essere selezionati solo magistrati che abbiano esercitato o esercitino funzioni di legittimità, escludendo i giudici di merito, priva l’organo di un contributo essenziale per una valutazione più equilibrata delle condotte disciplinarmente rilevanti e rischia di introdurre elementi di verticalizzazione nell’assetto della magistratura, che la Costituzione concepisce come diffuso e non gerarchico.

Va sottolineata, inoltre, la rottura del divieto di istituire nuovi giudici speciali e l’inopportuna moltiplicazione degli organi costituzionali o di rilievo costituzionale che la riforma produce, con prevedibili conseguenze in termini di aumento della conflittualità interistituzionale, certo non auspicabile.

Infine, un aspetto particolarmente problematico riguarda il sistema di impugnazione delle decisioni dell’Alta Corte che – avendo previsto l’appello «soltanto davanti allo stesso organo», ancorché in composizione differente – contraddice il principio del doppio grado di giurisdizione e sembrerebbe porsi in contrasto con la stessa garanzia costituzionale del ricorso per Cassazione.

 

Il ruolo del Pubblico Ministero

Voglio soffermarmi ancora sulla figura del Pubblico Ministero, al centro della riforma e definito da Pizzorusso come «uno degli elementi qualificanti il modello italiano di ordinamento giudiziario». Un unicum, si sottolinea spesso, e tra gli argomenti più citati a sostegno della riforma vi è il confronto con altri ordinamenti. Tuttavia, come sempre, la comparazione dovrebbe essere condotta in modo sistematico e non limitandosi a singoli istituti isolati.

Se si vuole prendere a riferimento un modello straniero di pubblica accusa, sarebbe infatti opportuno considerare l’intero assetto dell’ordine giudiziario di quel Paese e gli strumenti di garanzia che esso prevede per assicurare non solo la separazione delle carriere, ma soprattutto la separazione tra il potere politico e quello giurisdizionale, in quanto pilastro dello Stato di diritto.

Un’analisi più ampia potrebbe far emergere come il nostro sistema, diversamente da altri, presenti già oggi criticità strutturali sotto diversi profili, ad esempio nel macroscopico esautoramento del ruolo del Parlamento nel processo legislativo. In questo contesto, intervenire su un elemento così delicato per l’attuazione di valori e principi costituzionali fondamentali, come la pubblica accusa, rischia di produrre effetti ben diversi rispetto a quelli ottenuti altrove, compromettendo equilibri già precari. Insomma, di sicuro c’è un giudice a Berlino, ma non è detto che noi riusciremmo a importarlo nel nostro ordinamento senza trasfigurarlo.

Quanto poi alla questione della separazione funzionale, come osservava lucidamente Valerio Onida: «La favoletta del pubblico ministero che bussa alla porta del giudice ed entra col cappello in mano, è buona (forse) per épater le bourgeois» (V. Onida, Politica e giustizia: problemi veri e risposte sbagliate, in il Mulino, 2010, 27). Così, ad esempio, l’immagine dei giudici non «terzi» e non imparziali perché psicologicamente dipendenti dai magistrati della pubblica accusa, sembrerebbe smentita proprio dai dati, polemicamente evocati dallo stesso Ministro della giustizia Carlo Nordio, di procedimenti penali conclusi con sentenze di assoluzione.

E rispetto all’annoso problema di arginare la discrezionalità delle Procure nell’esercizio dell’azione penale, occorre constatare che la Riforma Cartabia contiene una delega per fissare i criteri di priorità delle inchieste giudiziarie attraverso un procedimento molto complesso. A questa delega l’attuale Governo ha dato attuazione in modo parziale, tanto che di nuovo si sta discutendo in Commissione giustizia al Senato di un progetto di legge sul tema (d.d.l. S 933). E dunque, se si vuole andare in questa direzione, per restringere la discrezionalità che i pubblici ministeri si trovano di fatto esercitare all’ombra dell’obbligo dell’esercizio dell’azione penale, lo si faccia davvero in modo ragionevole e efficiente, così da rendere il processo di selezione trasparente.  Si deve però aggiungere che ci sarebbe anche un’altra strada ugualmente percorribile senza rinunciare all’obbligatorietà tout court dell’azione penale, ossia quella della depenalizzazione dei reati minori. Non è infatti a mio avviso razionale riempire il codice penale con misure securitarie in materia di droghe leggere, sull’immigrazione, sulla resistenza a pubblico ufficiale, coi reati di opinione, e poi lamentarsi di dover fare i conti con una necessaria selezione di quali reati in concreto si possono effettivamente perseguire.

L’uso più accorto della leva penale servirebbe anche a mitigare un “vero” e drammatico problema della giustizia, ossia il problema del sovraffollamento delle carceri. Mentre invece aumentano i detenuti per condanne inferiori a 3 anni e diminuiscono i detenuti con condanne superiori ai 10, il che dimostra che ci si sta allontanando da quel modello di extrema ratio cui l’uso del carcere e della legislazione penale dovrebbe essere improntato.

 

Il processo di delegittimazione della magistratura e dei magistrati

Oggi la delegittimazione della magistratura non si manifesta più tanto attraverso un attacco generalizzato all’istituzione, quanto piuttosto attraverso la messa in discussione di singoli magistrati, identificati nominalmente da politici e mass media e accusati di essere di parte o di volersi sostituire al legislatore attraverso la propria opera interpretativa.

Si dimentica, tuttavia, che, da un lato, il ricorso all’interpretazione giurisprudenziale è spesso una necessità imposta dall’oscurità dei testi legislativi, frutto di processi decisionali confusi e convulsi e di quell’esautoramento del Parlamento al quale si è accennato sopra. Dall’altro, si trascura il fatto che il dialogo tra giudici comuni e corti superiori, sia nazionali che europee, così come il principio dell’interpretazione costituzionalmente e comunitariamente conforme, rappresentano strumenti essenziali per garantire coerenza ordinamentale e piena tutela dei diritti fondamentali.

La delegittimazione della magistratura e dei magistrati si manifesta, poi, anche in altre forme, lasciando segni profondi. Un esempio emblematico è l’introduzione, a partire dal 2026, di test psicoattitudinali per i neo-magistrati, ai quali dovranno sottoporsi i vincitori del concorso. Se da un lato l’equilibrio mentale è certamente un requisito fondamentale per tutte le professioni, in particolare per chi esercita funzioni così delicate come la magistratura, dall’altro questa misura proietta un’ombra insidiosa sull’intera categoria, insinuando il sospetto che il magistrato debba essere sottoposto a un vaglio psicologico che altre professioni di pari responsabilità non prevedono. Una scelta che, anziché rafforzare la credibilità della magistratura, rischia di alimentare ulteriormente la sfiducia che, a parole, si dice di voler contrastare.

Per di più, in un contesto globale in cui il consenso sui diritti umani è al minimo storico – come ha recentemente denunciato l’Alto Commissario ONU Volker Turk – misure come queste potrebbero trasformarsi in strumenti di selezione ideologica, aprendo la strada a una nuova forma di caccia alle streghe. Il rischio è che la libertà di pensiero e di coscienza, la capacità di critica e il giudizio autonomo – qualità essenziali che ogni buon magistrato dovrebbe possedere – vengano facilmente etichettati come elementi di inaffidabilità, come pericolose deviazioni o, persino, come sintomo di follia!

 

*Associata di diritto costituzionale e pubblico, Università degli studi di Brescia

 

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