Il filo rosso

Riflessioni pensando a Valerio

A proposito dell’Italia e di altri ordinamenti europei

Luglio 6, 2024

Matteo Frau*

È indubbio che i costituenti italiani abbiano disegnato il nostro sistema di governo influenzati dalla paura del tiranno, storicamente incarnato dalla figura del Duce del fascismo di cui vi era a quel tempo fresca memoria.

La “paura del tiranno” individua in fin dei conti lo scopo principale di ogni forma di governo ispirata dal principio della separazione (perlomeno relativa) del potere, sebbene nelle odierne democrazie parlamentari questa originaria finalità “liberale” debba convivere con l’esigenza di dare vita a governi stabili, oltre che politicamente responsabili.

I difetti di funzionamento del sistema parlamentare italiano, come da decenni sottolineano molti costituzionalisti, non vanno ricercati nell’architettura di fondo del nostro sistema parlamentare bensì in fattori esterni che risalgono in ultima analisi dall’annoso problema del sistema di partito e che l’ingegneria normativa della forma di governo – e forse nemmeno quella del sistema elettorale – può risolvere.

Il governo parlamentare delineato nella Costituzione italiana si caratterizza, oltre che per il bicameralismo paritario e per le attribuzioni non particolarmente incisive del Presidente del Consiglio, per una notevole elasticità assicurata da due fattori principali: una relazione fiduciaria blandamente razionalizzata (nel senso che si instaura e viene revocata tramite una votazione a maggioranza semplice); un capo dello Stato con funzioni di garanzia attive, il quale è in grado di intervenire come un deus ex machina per risolvere le – purtroppo frequenti, almeno sino a un recente passato – situazioni di stallo della politica ed è titolare del potere di scioglimento delle Camere (sia pure con la controfirma del Presidente del Consiglio).

Nel disegnare attribuzioni e relazioni degli organi di vertice dello Stato la Costituente italiana ha quindi fatto scelte diverse e per certi aspetti molto originali rispetto a quelle recepite in altri testi costituzionali coevi.

Ma non per questo si tratta di scelte peggiori.

Spesso magnificate da chi critica la peculiare struttura del nostro sistema parlamentare, le soluzioni presenti in altri ordinamenti non hanno impedito l’insorgenza di problemi simili e talora più gravi di quelli imputabili al nostro parlamentarismo: in Spagna, ove si è rischiata qualche tempo fa la secessione della Catalogna, dal 2023 il Presidente Sánchez guida (in forza di discutibili compromessi) un governo di coalizione pur senza essere il leader del partito di maggioranza relativa, il quale è singolarmente all’opposizione; in Francia, ove la formula mista a componenti presidenziali e parlamentari non ha mai trovato pace richiedendo continui aggiustamenti costituzionali, si riapre proprio in questi giorni il possibile scenario di una difficile coabitazione, con un Presidente sostanzialmente deprivato del sostegno popolare e un partito di estrema destra che mira a prendere il controllo dell’Assemblea nazionale; in Belgio la formazione dei Governi richiede spesso tempi lunghissimi, molto più lunghi di quelli cui siamo – rectius eravamo – abituati in Italia. E veniamo al premierato, quello vero. Nel Regno Unito il partito conservatore è stato al governo, con alti e bassi (ma soprattutto bassi), per ben 14 anni senza la possibilità di una valida alternanza e facendo rimpiangere le migliori performance del governo di coalizione Cameron-Clegg sorto nel 2010; la permanenza di leader conservatori al numero 10 di Downing Street è stata così prolungata e così deteriorante per il partito al governo che l’esito delle ultime elezioni generali ha avuto un che di catartico: il partito laburista ha conquistato una super-maggioranza di 410 seggi su 650 (quasi il doppio dei seggi dei conservatori), tanto schiacciante da far temere per l’equilibrio del sistema.

A fronte di questo quadro poco edificante, è un po’ paradossale che, proprio nel momento in cui il parlamentarismo italiano sembra per la prima volta funzionare come dovrebbe, dando vita a un Esecutivo stabile – piaccia o meno il suo orientamento e il suo agire – sostenuto da una solida maggioranza di coalizione e retto da un leader di partito in grado di dirigere il Consiglio dei Ministri, si proponga una riforma in senso neoparlamentare che rafforza eccessivamente il capo del Governo a discapito del potere di controllo del Parlamento e del ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica[1].

Il Governo Meloni è testimonianza vivente di due fatti indiscutibili fra loro connessi: che è l’esito delle elezioni politiche più che il regime costituzionale della forma di governo a determinare il risultato della c.d. governabilità; che nondimeno il regime costituzionale della forma di governo ha sinora garantito il regolare funzionamento del sistema pur in assenza di quell’esito politico.

Piuttosto vi sarebbe da chiedersi come mai, nonostante la robustezza del Governo in carica, permangano e anzi a volte si aggravino gli annosi problemi collegati all’abuso della decretazione d’urgenza e della questione di fiducia. In questo senso, si potrebbe certamente ragionare di correttivi e si potrebbero esplorare alcune delle soluzioni suggerite dal Presidente Barbera nell’intervista rilasciata al Sole 24 Ore.

Invece, e purtroppo, il proposito riformatore dell’Esecutivo è oggi quello di stravolgere la forma di governo.

Una peculiarità della riforma del premierato, rispetto ad altre esperienze costituzionali comparabili alla nostra, risiede nel fatto che essa ha di mira la sostituzione del sistema di governo esistente; un po’ come è avvenuto, sulla base di ben altre premesse, nell’ambito degli Stati europei post-comunisti con la transizione alla democrazia. Nessuna delle esperienze costituzionali europee sorte o risorte dopo il Secondo conflitto mondiale nell’Europa occidentale ha compiuto il passo che questa riforma vorrebbe fosse compiuto nel nostro Paese. È vero che il passaggio dalla IV alla V Repubblica francese segnò un cambio radicale della forma di governo, ma ciò avvenne appunto per effetto dell’adozione di una nuova Costituzione. Gli svariati interventi successivi al 1958, come l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica (dapprima scelto da un vastissimo collegio di grandi elettori in cui la componente parlamentare era comunque ininfluente), la riduzione della durata del mandato presidenziale (per ostacolare, ma non impedire, l’insorgenza delle coabitazioni) e il “riequilibrio” in favore del Parlamento successivamente voluto dal Presidente Sarkozy, non hanno intaccato l’essenza della forma di governo immaginata da De Gaulle: ancora oggi l’Esecutivo promana dal capo dello Stato ma vi è l’incognita delle coabitazioni e aleggia l’ipotesi di una gestione duumvirale della funzione di governo. In fin dei conti, il tratto saliente del governo semipresidenziale francese è ancora quello delle sue origini.

Anche in Belgio sono state approvate diverse riforme costituzionali e alcune di esse hanno modificato in profondità l’assetto bicamerale. Ma se si ragiona di rapporti tra Parlamento, Governo e capo dello Stato, allora si può dire che il senso del parlamentarismo belga non è mai venuto meno, nemmeno a seguito del correttivo rappresentato dall’introduzione della sfiducia costruttiva all’inizio degli anni Novanta.

Nel Regno Unito, ove sono soprattutto le convenzioni costituzionali a modellare il sistema, il Fixed-Term Parliaments Act introdotto nel 2011 e abrogato nel 2022 ha rappresentato una “meteora” di parlamentarismo razionalizzato imposta dai liberaldemocratici per entrare a far parte del governo di coalizione guidato dal premier Cameron.

Naturalmente si potrebbero fare altri esempi, ma è indubbio che la riforma italiana del premierato costituisce un fatto davvero eccezionale, poiché il suo effetto è esattamente quello di abbandonare la forma di governo prescelta dai Costituenti in favore di un sistema che – almeno a parere di chi scrive – si discosta dalle coordinate del parlamentarismo. Come? Introducendo l’elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio (di cui vi è già stata peraltro fallimentare esperienza in Israele) e privando di fatto il Parlamento del potere di sfiduciarlo, poiché il termine in questione non si addice a una facoltà il cui esercizio comporta l’autodistruzione dell’organo (ossia l’autoscioglimento).

Si dice che questo sistema funzionerebbe, grosso modo, come il premierato inglese. È falso. Innanzitutto, se nessuno può contestare il fatto che le elezioni generali inglesi servano anche per scegliere “automaticamente” il Primo Ministro (a condizione che il partito di cui è leader conquisti la maggioranza assoluta dei seggi della House of Commons) nessuno può però affermare che si tratti di un’elezione diretta del premier. Ciò che gli elettori inglesi scelgono – costituzionalmente parlando – è il partito che deve governare, rectius i relativi candidati nei collegi uninominali. La scelta di leader e programma è indiretta. I poteri più significativi del premier inglese, come quelli relativi allo scioglimento anticipato e alla gestione degli incarichi ministeriali, non affondano le radici nella carica istituzionale di Primo Ministro ma nella leadership del partito che invera la maggioranza parlamentare. Sin dagli anni Cinquanta i Lascelles Principles hanno chiarito, ad esempio, che la proposta di scioglimento del Primo Ministro non può essere accolta se vi sia fondato motivo di ritenere che la maggioranza parlamentare è disposta a proseguire “costruttivamente” la legislatura con un altro premier. Un condizionamento che ricorda per certi versi la logica di fondo nella procedura delineata dall’art. 68 della Legge Fondamentale tedesca per l’esercizio del potere di scioglimento su proposta del Cancelliere. L’idea di un potere di scioglimento nella libera disponibilità del premier è molto superficiale e semplicistica. Questo “errore” si trova anche nella Costituzione spagnola del 1978, che disciplina il potere di scioglimento in modo da rafforzare eccessivamente la posizione del Presidente del Governo.

* Professore Associato di diritto pubblico comparato, Università di Brescia

[1] In passato, ci sono stati molti tentativi di riformare il nostro sistema parlamentare, che è stato definito – come ha scritto il professor Philippe Lauvaux – a «grado zero di razionalizzazione». Dagli anni ’80, come è noto, questi tentativi, soprattutto da parte della sinistra, si sono rivolti anche al modello neo-parlamentare di ispirazione duvergeriana con l’elezione diretta del Primo Ministro e la regola del aut simul stabunt aut simul cadent. È curioso che oggi anche il partito di destra di Giorgia Meloni si ispiri a questa proposta proveniente da un ambiente intellettuale di sinistra, abbandonando la sua tradizionale preferenza per la soluzione mista francese o semipresidenziale, anche se in parte e molto più blandamente lo aveva fatto anche il Governo Berlusconi con la riforma bocciata dal corpo elettorale nel 2006.

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