di Giovanna Ichino
già presidente di sezione presso la corte d’appello di Milano
L’impegno di Valerio Onida nella formazione dei magistrati e nell’avvio della Scuola Superiore della Magistratura, di cui è stato il primo Presidente, è parte importante e feconda della sua attività di studioso e di uomo delle istituzioni. In questo scritto l’azione di Onida viene ripercorsa, unitamente a quella della Scuola, da chi ha partecipato alla fase pionieristica di una istituzione fondamentale per la magistratura.
1. E’ difficile dire qualcosa di più e di meglio rispetto a quanto già non sia stato espresso nei giorni scorsi in ricordo del Professor Valerio Onida, recentemente scomparso, sia con riguardo alla sua figura di insigne giurista, di professore universitario, di Presidente della Corte Costituzionale, che sotto il profilo delle sue straordinarie qualità umane e dei suoi variegati interessi che lo hanno portato ad occuparsi, sempre con entusiasmo, di molteplici settori e attività a favore della società civile.
Eppure penso che rimanga ancora un piccolo spazio per raccontare del suo impegno, nell’ultimo decennio di vita, a favore della formazione dei magistrati e della Scuola Superiore della Magistratura, del cui primo Comitato Direttivo è stato il Presidente.
2. La SSM, istituita con il dlgs n. 26 del 2006, modificato dalla L. n.111 del 2007, ha di fatto preso vita solo il 24 dicembre 2011, con la nomina e l’insediamento del primo Comitato direttivo (CD). La legge prevedeva per la Scuola tre sedi e i decreti ministeriali avevano indicato per la loro dislocazione le province di Bergamo, di Firenze e di Catanzaro (divenuta poi, dopo una lunga controversia giudiziaria, Benevento), intendendosi dar luogo ad un’ attività di formazione articolata per grandi aree territoriali (per i magistrati “padani” del nord, per quelli del centro e del sud), cosa che rischiava tra l’altro di contrastare con il carattere unitario e nazionale della funzione giudiziaria.
Alla data della nomina del primo Comitato Direttivo, nessuna sede era ancora concretamente disponibile, se non quella di Bergamo, per il cui canone di affitto, in virtù di un contratto in precedenza incautamente stipulato dall’allora Ministro Castelli, è stato pagato un importo veramente cospicuo, a titolo di canone, per circa un decennio anche dopo che era iniziato l’utilizzo della Villa Castelpulci di Scandicci. A seguito di sopralluogo effettuato da Valerio e da me – allora componente del CD – la sede bergamasca era risultata inidonea allo scopo per via della volumetria e tipologia degli spazi complessivi messi a disposizione, nonché della dimensione dei locali e della loro frammentazione. Agli inizi del 2012, nessuna sede risultava quindi immediatamente disponibile e idonea per poter almeno iniziare ad accogliere i MOT appena nominati, il cui tirocinio doveva essere organizzato dalla Scuola per sei mesi.
D’altro canto, i componenti magistrati del CD erano ancora in servizio a tempo pieno negli Uffici giudiziari (forse perché neppure il CSM aveva fiducia che la Scuola sarebbe decollata) e poca disponibilità avevano per occuparsi oltre che della fase fondativa dell’ordinamento della Scuola (ad esempio del suo Statuto, dei regolamenti interni, della selezione e nomina del segretario generale, senza il quale non si potevano sottoscrivere contratti o assumere il personale), anche degli svariati aspetti logistici e burocratici, concernenti la sede della villa di Scandicci, precedentemente ristrutturata per altri scopi e nel frattempo offerta gratuitamente dal Demanio alla Scuola: di tali aspetti si è fatto in grande parte carico in quei mesi lo stesso Presidente Onida e la Scuola difficilmente avrebbe preso l’avvio senza la sua passione e la sua determinazione.
Si è potuto così, nell’ottobre del 2012, iniziare l’attività formativa residenziale nei confronti di più di trecento MOT, suddivisi in due gruppi, che si alternavano a Scandicci tutte le settimane.
3. Sia nella predisposizione dell’attività formativa, che nella sua realizzazione pratica, Valerio ha speso, senza mai risparmiarsi, tempo ed energie, partecipando a quasi tutte le sessioni del tirocinio ordinario e mirato dei MOT dei tre concorsi, che si sono susseguiti alla Scuola in quel periodo, ed anche insegnando lui stesso. Ricordo la sessione di formazione sulla giustizia costituzionale in cui, partendo da casi concreti e con grande pazienza spiegava ai giovani magistrati come si deve scrivere un’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale, se si vogliono evitare inutili dichiarazioni di inammissibilità, e li invitava alla concisione e alla precisione del linguaggio, scherzosamente ricordando che, dopo avere scritto un testo, si sarebbe potuta eliminare una parola su tre, perché un terzo di ciò che si scrive è inutile.
Stava con loro, parlava con loro durante gli intervalli o i pasti, li ascoltava, prendeva sul serio le loro osservazioni, non mostrava mai fretta quando si trattava di affrontare le questioni che gli sottoponevano. Era un uomo molto colto, ma anche capace di parlare delle cose più semplici e dotato di grande ironia e autoironia, che tutti apprezzavamo. Anche quando per un banale incidente in albergo si ferì alla testa e dovette ricorrere ad una sutura del capo in ospedale, disattese la raccomandazione dei medici di andare a riposarsi e volle recarsi subito alla Scuola per non mancare all’appuntamento con i giovani magistrati, che lo accolsero con applausi.
Ha scritto nei giorni scorsi Barbara Benzi, allora MOT: «il professore era sempre con noi, con la sua competenza ed il suo spirito, la sua visione, il suo slancio: davvero un ricordo positivo della forza che le idee hanno quando camminano sulle gambe delle persone illuminate».
Credeva nella formazione inziale e nell’ importanza di creare dei magistrati non autoreferenziali e «aperti all’esterno». Di qui, ad esempio, la sua determinazione nell’organizzazione – assieme ai responsabili della formazione iniziale del CD – degli stage presso diverse istituzioni dello Stato (ad esempio, presso gli Uffici di Polizia e i Comandi dei Carabinieri), o nelle cancellerie giudiziarie (perché un magistrato deve conoscere il lavoro di chi con lui collabora), ma soprattutto presso gli Istituti penitenziari. Questo stage, ispirato certamente dalla sua lunga e fattiva esperienza di volontario presso lo Sportello giuridico della Casa di Reclusione di Bollate e dalle sue visite in carcere, ha trovato agli inizi molti ostacoli, anche presso gli stessi magistrati: esso era articolato su due settimane a tempo pieno negli Istituti e al termine all’UEPE e al Tribunale di sorveglianza del distretto di appartenenza dei MOT ed era finalizzato a far conoscere l’ambiente carcerario (seguendo il percorso del detenuto, dall’ingresso nell’Istituto, al trattamento sanitario e rieducativo, alla fase disciplinare e a quella di reinserimento nella società), nonché a far comprendere il ruolo delle differenti figure che operano nella fase esecutiva della pena e a far acquisire elementi importanti per valutare l’impatto sulle future decisioni. Proprio per attuare con maggiore incisività questo stage, Valerio si era recato presso la Scuola della magistratura francese a Bordeaux per avere una conoscenza diretta dell’«esperienza formativa carceraria» ormai pluriennale dei giovani magistrati francesi (che, addirittura, durante lo stage si vestivano con gli abiti della Polizia al fine di realizzare coi detenuti una esperienza il più possibile simile alla realtà), per confrontarsi sul punto con i colleghi della ENM e trarne utili spunti per una concretizzazione anche in Italia. Le difficoltà organizzative sono state molte, ma forse ancora maggiori sono state le obiezioni che provenivano da alcuni MOT (abbiamo fatto un concorso per diventare magistrati, non poliziotti penitenziari; vogliamo dedicarci al diritto civile e mai avremo a che fare con detenuti, quindi non ci serve andare in carcere; non vogliamo prendere malattie, ecc.), ma anche da colleghi del CSM o del Ministero.
Fin da questa prima fase si è subito evidenziata la tenacia di Valerio, che pur con la sua mitezza e gentilezza nei confronti degli interlocutori, era testardo e intransigente quando intendeva sostenere fino in fondo le tesi in cui credeva e raggiungere il risultato voluto, peraltro condiviso da tutto il CD. E lo stage penitenziario ebbe poi un riscontro estremamente positivo sia da parte dei MOT, che della Direzione degli Istituti.
4. E così è avvenuto che, anche nella programmazione della formazione continua dei magistrati, il Presidente insistesse perché si inserissero, accanto ai corsi attinenti materie strettamente giuridiche, anche corsi aventi tematiche “esterne” e corsi nei quali giudici e PM potessero avere un confronto con personalità ed esperienze diverse da quelle giuridiche: economisti, psicologi e psichiatri, medici, sociologi, storici e filosofi, dirigenti di azienda e sindacalisti, tecnici in materie di polizia scientifica, attori e critici cinematografici, professori di varie discipline, fino ad arrivare anche al corso, che nel programma originario approvato dal primo Comitato direttivo prevedeva un incontro tra vittime e ex detenuti, autori di reati di terrorismo, con riguardo alle tematiche ed esperienze della giustizia riparativa (questo programma non è stato poi realizzato dal CD successivo al nostro, per un fermo intervento contrario da parte del Comitato di Presidenza del CSM). Tanto era convinto dell’ efficacia della mediazione dei conflitti, attraverso gli incontri di giustizia riparativa, che partecipò in prima persona come “testimone terzo” al lungo cammino di riparazione del Gruppo dell’Incontro, assieme a ex terroristi e vittime degli anni di piombo in Italia; e proprio con tutti loro – anche quegli stessi che avrebbero dovuto partecipare al corso di formazione di Scandicci – fece un viaggio a Gerusalemme e nei territori occupati, per conoscere da vicino le realtà di mediazione del conflitto tra israeliani e palestinesi e confrontarsi con le persone e le varie organizzazioni impegnate in questo campo. Successivamente collaborò con il Progetto europeo Re Justice, che vedeva la partnership, tra gli altri, della Scuola Superiore della Magistratura e di altre Scuole della magistratura europea, nonché dell’Alta Scuola Federico Stella per la giustizia penale dell’Università Cattolica. Sottolineava Onida che questo Progetto aveva lo scopo proprio di aiutare a cambiare prospettiva e a riportare all’interno di tutta la giustizia penale – e non solo con riferimento ai reati particolarmente gravi che avevano seriamente coinvolto la società, come quelli di terrorismo o di omicidio, ma anche dei reati minori – il superamento di una concezione di giustizia come retribuzione e pareggiamento dei conti, dopo averli misurati da una parte e dall’altra; ciò poteva avvenire con azioni di ricucitura del tessuto sociale lacerato dal reato, attuate mediante l’incontro volontario tra rei e vittime, con l’aiuto di mediatori. Perché per qualsiasi reato, l’applicazione della sola pena retributiva non è satisfattiva. La pena deve tendere alla rieducazione e non solo ad una compensazione tra la società e il reo, come del resto afferma con forza anche la legge delega n. 134 /21, la c.d. Riforma Cartabia. E’ necessario dunque che anche nella società civile ci sia un cambio di prospettiva e di mentalità, cui molto può contribuire la preparazione culturale dei magistrati in questa direzione.
5. Le caratteristiche della formazione dei magistrati, per come la concepiva Valerio, sono state da lui ben delineate nei vari interventi tenuti presso la Scuola e il CSM, e da ultimo nel corso della Tavola rotonda organizzata il 24 novembre 2021 per il decennale della SSM. In questa ultima occasione, riprendendo un articolo di Giuseppe De Rita, apparso sul Corriere della Sera nel 2007, che evidenziava i rischi dell’idea di formazione emergente dal Decreto istitutivo del 2006, Valerio ribadiva che bisogna rifuggire dall’idea di una Scuola concepita esclusivamente come interna al corpo giudiziario, senza alcuna apertura verso la società esterna. Questo rischio esiste, se non altro perché il Comitato direttivo della Scuola è composto in maggioranza da magistrati nominati dal CSM i quali, a differenza dei membri laici, vi lavorano a tempo pieno; ma essa è e deve essere una istituzione autonoma e indipendente, anche operativamente. Non siamo più di fronte ad una formazione impartita dalla nona commissione del CSM e pertanto la Scuola, pur ricevendo linee guida programmatiche dal CSM stesso e dal Ministro, deve organizzare in autonomia la formazione di giudici e PM. Formazione che è indispensabile per rafforzare l’indipendenza stessa dei magistrati.
Il distacco dal Consiglio Superiore è stato caratterizzato da difficoltà di rapporti, perché il passaggio non è stato né facile, né indolore. Basta ricordare la già citata vicenda del corso sulla giustizia riparativa – fortemente voluto da Valerio e programmato dal primo Comitato direttivo per i mesi immediatamente successivi alla scadenza del proprio mandato – che prevedeva una nuova metodologia e una particolare apertura verso l’esterno, attraverso la partecipazione di vittime e autori di reato, che avevano già pagato il loro debito con la giustizia, nonché dei mediatori del lungo percorso riparativo effettuato: la previsione della presenza di ex terroristi presso la Scuola provocò reazioni esterne indignate, fino a giungere ad un intervento del Comitato di presidenza del CSM e alla decisione del nuovo Comitato direttivo di eliminare la sessione riguardante il loro aperto confronto con le vittime. Valerio, in quella occasione, decise di non partecipare al corso e di restare, con i testimoni “esclusi “, nell’albergo di Firenze in cui erano alloggiati, per testimoniare la propria solidarietà. Ma, a parte questo isolato episodio – oggetto poi di riflessione critica da parte dello stesso Prof. Silvestri, presidente del secondo CD, nel discorso tenuto in occasione del decennale della Scuola – la SSM ha dimostrato nel suo complesso di saper difendere la propria autonomia e indipendenza, beni che devono essere tutelati e fatti crescere, perché la formazione dei magistrati deve necessariamente collegare la magistratura alla società, essendo questo ciò che la società richiede e si attende. Anche l’accesso alla magistratura attraverso il concorso pubblico dovrebbe riguardare una formazione a tutto campo e non essere limitata alle materie strettamente giuridiche, perché, diceva Valerio citando Carnelutti, chi conosce solo il diritto non conosce nemmeno il diritto.
6. Valerio indicava un vizio ricorrente nell’ attività della magistratura e cioè quello antico del formalismo, del fermarsi alla stretta applicazione delle norme. Nel discorso tenuto al decennale della Scuola, egli ha richiamato anche Calamandrei («talvolta governano degli idoli a cui si sacrificano esseri umani»), secondo cui troppo spesso nell’ attività giudiziaria si incorre nel rischio del formalismo. Per questo la formazione deve insegnare ai magistrati a superare l’idea della pura forma e della pura logica interna: e ciò anche perché il sistema normativo è talmente evoluto (per l’ampio intreccio e le interazioni tra diversi ordinamenti e tra norme di diritto interno e internazionali), che non è più consentito dire che oggi c’è un sistema logico conchiuso in se stesso; né è più dato di riscontrare una logica formale chiara. Compito del magistrato non è quindi quello di applicare meccanicamente la legge, ma è quello di fare giustizia, che è cosa ben diversa: è una giustizia che riesce in qualche modo a “riparare il tessuto personale e sociale lacerato e a migliorare il futuro di tutti” e non si ferma all’accertamento dei fatti e delle responsabilità, al conteggio delle sanzioni e dei risarcimenti.
Semmai oggi è importante tener in maggior conto la giurisprudenza rispetto a quanto non si sia fatto in passato, cercando, attraverso il confronto tra i giudici, di renderla il più possibile uniforme. E comunque, nella storia della magistratura italiana, un ruolo importante giocano la giurisprudenza costituzionale e la possibilità per i giudici di sollevare essi stessi davanti alla Corte le questioni di legittimità delle leggi.
Per il nostro Presidente, la formazione non può che essere una formazione a tutto tondo, partendo da una maggiore conoscenza delle realtà nelle quali le varie categorie di magistrati sono chiamate ad operare e dall’ interazione tra queste realtà e i principi giuridici fino ad arrivare ai principi fondamentali costituzionali che reggono contemporaneamente la società e le varie funzioni che nella società si svolgono, ivi compresa quella giudiziaria. Un magistrato che trascurasse di formarsi anche sulla conoscenza delle realtà sociali, non sarebbe un magistrato ben formato. E di questo la Scuola deve farsi carico.
Se la realtà esterna è importante, questo non significa, secondo Onida, che il magistrato nel suo operare debba sempre raccogliere l’ultimo appello proveniente dalla società; il rischio è infatti che le istanze della società si trasformino meccanicamente in domande di giustizia, in realtà calibrate su esigenze avvertite come esigenze immediate, dimenticando il tessuto complesso che sta dietro; cosicché le sentenze che le accolgono possono sembrare il frutto di un’ indebita pressione della società stessa. Bisogna formare i magistrati a filtrare, sempre attraverso i principi, le istanze momentanee provenienti dalla società.
E, infine, sottolineava Onida, la formazione deve tener conto dell’esigenza che l’attività giudiziaria sia efficiente e che i suoi apparati funzionino. Di qui, l’estrema importanza di una formazione dei Dirigenti degli Uffici, perché imparino a farli funzionare efficacemente e a rispettare i tempi della giustizia; la funzione della giustizia, infatti, è ben più che l’applicazione meccanica di leggi senza curare come queste applicazioni vadano ad incidere sulla società; anche una sentenza ben studiata, ma che arriva troppo tardi, sta a significare che non si è fatta giustizia. In questa prospettiva, Onida era anche molto favorevole all’istituzione dell’Ufficio del processo, che oltre a garantire una velocizzazione del lavoro, rende il magistrato meno isolato e meno individualista.
Un invito che Onida spesso rivolgeva ai magistrati in formazione era quello di esercitare la propria funzione sempre meglio, perché «non c è un limite al meglio». E lui cercava sempre di ottenere il meglio.
Aveva cura di mantenere ottime relazioni con le altre istituzioni, sia nella forma che nella sostanza, ma sempre nel rispetto delle reciproche autonomie, per cui non tollerava alcuna indebita ingerenza sull’attività e sulle decisioni dell’istituzione in cui operava.
7. Quanto alla gestione delle risorse pubbliche, e in particolare del denaro della Scuola, pretendeva un estremo rigore perché i soldi dei cittadini andavano spesi bene e con oculatezza (e per questo, dando origine a notevoli malumori fra i colleghi, il primo CD stabilì che i viaggi dei magistrati e dei componenti del comitato direttivo per recarsi alla Scuola su treni ad alta velocità fossero effettuati in classe economica; nella stessa direzione andava la sua battaglia, portata avanti assieme ad alcuni MOT, perché i ricchi avanzi dei lunch della Scuola non venissero buttati via, ma fossero utilmente destinati ad una mensa per gli indigenti di Firenze). Valerio era anche estremamente sobrio nella sua vita privata (ad esempio, si serviva dei mezzi pubblici o in car sharing), ma nello stesso tempo aveva un’ enorme generosità personale nel finanziare buone cause (sono innumerevoli, ad esempio, le iniziative, che ha co-fondato o finanziato, a favore della società civile, o per la tutela di detenuti o degli immigrati, dalla cooperativa dei detenuti che gestisce il ristorante In Galera del carcere di Bollate, all’ Associazione che si occupa dell’inserimento scolastico e della prosecuzione degli studi delle figlie di immigrati, al Progetto Ibrahim della Casa della carità di Milano, che accompagna all’ autonomia e all’indipendenza i giovani extracomunitari neomaggiorenni, altrimenti destinati all’espulsione, offrendo loro un’ abitazione e seguendoli nel lavoro o nello studio, al Circolo società civile, «spazio autonomo in cui la società civile possa esprimersi … perché esiste un ambito – quello dei valori, quello della legalità – che non può essere sottoposto alla legge dello scambio politico» e a tantissime altre iniziative ancora). Ma soprattutto era generoso nello spendersi gratuitamente per difendere persone indigenti davanti all’Autorità giudiziaria, o per sostenere questioni di principio avanti alla Corte Edu (patrocinando, ad esempio, le ragioni dell’ergastolano Marcello Viola sull’ergastolo ostativo e ottenendo la sentenza del 2019 che ha condannato l’Italia per la previsione di una pena perpetua non riducibile), o per rendersi disponibile per la società civile, come quando si candidò per le primarie del centro sinistra alla carica di Sindaco di Milano in un momento assai delicato e difficile per la città.
Nelle riunioni del Comitato direttivo e nello svolgimento delle varie attività, Valerio mal tollerava le digressioni o la distrazione dei componenti e invitava sempre a cogliere il punto essenziale dei problemi, per evitare inutili sprechi di tempo; e però al tempo stesso aveva una disponibilità senza limiti nel dedicare il suo tempo a chi gli chiedesse un consiglio personale o giuridico o un aiuto.
8. Valerio è stato un vero punto di riferimento per tutti quanti hanno avuto la fortuna di incontrarlo, di ascoltarlo e di lavorare con lui ed ha trasmesso a tutti l’esempio di una vita piena di valori positivi. Nonostante la malattia, fino a quando le forze glielo hanno consentito, non si è mai risparmiato ed ha dedicato alla Scuola della Magistratura, alle sue altre attività, ad amici e conoscenti tutte le energie disponibili e sempre con lo stesso entusiasmo. Senza queste sue qualità, la Scuola della magistratura avrebbe fatto molta più fatica a decollare e sarebbe certamente stata più povera nei contenuti e nelle metodologie.
Credo quindi che la magistratura abbia nei suoi confronti un debito di gratitudine e che non debba dimenticare l’esempio che ci ha mostrato negli anni in cui ha dedicato tanto tempo e tanta passione alla formazione del magistrati.
Ma certamente possiamo credere che lo ha fatto molto volentieri e quasi divertendosi, se è vero quanto mi ha scritto come dedica sulla copia della Relazione del Comitato Direttivo sull’attività svolta negli anni 2012-2016: «nel ricordo gioioso di un lavoro comune».