Riflessioni pensando a Valerio
Aspettando la Corte, l’autonomia differenziata resta in campo
Antonio D’Andrea*
Se si esulta perché la sentenza della Corte costituzionale – di cui non abbiamo ancora letto le motivazioni – ha finito per demolire l’impianto della legge Calderoli in tema di procedure collegate all’ottenimento di forme e condizioni particolari di autonomia da parte delle Regioni ordinarie, ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, si dovrebbe ammettere che la richiesta di referendum abrogativo su quella stessa normativa non dovrebbe più avere corso essendo stati accolti i rilievi di merito, sollevati dalle Regioni ricorrenti (Emilia-Romagna, Puglia, Sardegna e Toscana), e che stavano alla base della contestuale richiesta di abrogazione per via popolare di quel testo.
In realtà, consentire o meno lo svolgimento del referendum abrogativo riguarda tanto l’Ufficio centrale per il referendum – cui spetterebbe, in prima battuta, di dichiarare legittime le operazioni relative al referendum popolare – quanto, in un secondo momento, la stessa Corte costituzionale, che ne dovrebbe accertare con sentenza l’ammissibilità alla luce sia dei parametri espressamente indicati dall’articolo 75, ultimo comma, della Costituzione sia di quelli che, nel tempo, la sua stessa giurisprudenza ha elaborato, a partire dalla sentenza n. 16 del 1978.
È, in ogni caso, davvero poco prudente spingersi, come pure stanno facendo commentatori di per sé tecnicamente capaci, a prognosi relative a quel che potrebbe accadere del referendum abrogativo, posto che ancora non si conoscono le motivazioni della sentenza della Corte, a seguito del ricorso in via principale promosso dalle quattro Regioni, basandosi unicamente sul lungo e articolato comunicato che la stessa Corte costituzionale ha redatto subito dopo la conclusione della camera di consiglio.
Da tale comunicato si evince: a) che la Corte «ha ritenuto non fondata la questione di costituzionalità dell’intera legge sull’autonomia differenziata delle regioni ordinarie (n. 86 del 2024), considerando invece illegittime specifiche disposizioni dello stesso testo legislativo»; b) molte disposizioni di quella stessa legge sono state dichiarate legittime a condizione che di esse venga fornita una interpretazione costituzionalmente orientata (attraverso quale tecnica si richiede di ottenere questo risultato “interpretativo” la stessa Corte dirà); c) che compete al Parlamento «colmare i vuoti derivanti dall’accoglimento di alcune delle questioni sollevate dalle ricorrenti, nel rispetto dei principi costituzionali, in modo da assicurare la piena funzionalità della legge»; d) che la Corte ritiene di dichiararsi ora per allora competente « a vagliare la costituzionalità delle singole leggi di differenziazione, qualora venissero censurate con ricorso in via principale da altre regioni o in via incidentale».
Quello che è certo è che entro il 15 dicembre l’Ufficio centrale per il referendum si pronuncerà sulla legittimità della richiesta dovendosi inevitabilmente interrogare, sin da subito, senza neppure attendere l’ammissibilità del quesito disposta dal Giudice costituzionale, se le disposizioni rimaste in vigore, alla luce degli interventi di annullamento e di interpretazione obbligata, consentano di parlare o meno di una disciplina residuale differente rispetto a quella che origina dalla richiesta dei promotori. È a tutti noto, del resto, che una volta ammessa la consultazione referendaria dal Giudice costituzionale, ove si giunga all’abrogazione della normativa su cui è richiesto il referendum e sempre che si tratti di una disciplina che innova il quadro normativo precedente, spetti proprio all’Ufficio centrale stabilire se il referendum non abbia più corso o, viceversa, possa essere trasferito sulle nuove disposizioni (ancora una volta, così stabilisce il Giudice costituzionale con la sentenza n. 68 del 1978). Ovviamente in questo caso, a meno che non si intervenga con una vera e propria riscrittura della legge in questione – che, per la verità, è stata adombrata dal Governo all’indomani della decisione della Consulta – non si tratterebbe di trasferire il quesito referendario da un “vecchio” testo ad uno “nuovo”, ma semplicemente di verificare o meno il mutamento del contenuto normativo dell’oggetto referendario e di determinarsi in conseguenza di ciò. Questa sarebbe effettivamente una novità rispetto a quanto già accaduto nella prassi.
Una cosa, infine, va chiarita: si faccia o meno il referendum, il principio costituzionale che consente l’ottenimento di ulteriori funzioni legislative e amministrative per le Regioni ordinarie, previa intesa con lo Stato, resta in vigore e bene ha fatto la Corte a precisare il senso di una procedura che non può restare chiusa nelle stanze del Governo e degli Esecutivi regionali (non a caso per definire l’intesa è prevista una legge da approvare da entrambe le Camere a maggioranza assoluta dei loro componenti) e che è destinata a non intaccare gli inderogabili vincoli solidaristici tra i territori e, tantomeno, ad affievolire i diritti fondamentali delle persone ovunque collocate geograficamente nel nostro Paese.
Se si volesse cancellare la possibilità di ottenere forme di differenziazione tra le Regioni, l’unica strada costituzionalmente percorribile resterebbe quella dell’abrogazione dell’articolo 116, comma terzo. Anche questo credo abbia voluto dire la Corte e, probabilmente, lo ribadirà.
* Professore ordinario in Istituzioni di diritto pubblico nell’Università degli Studi di Brescia