Riflessioni pensando a Valerio

Sotto l’egida dei diritti umani per costruire la pace

Novembre 13, 2024

Adriana Apostoli[1]

 

Nel saggio “Guerra, diritto, costituzione” (1999), scritto all’indomani dell’operazione Allied Force della NATO nei territori della ex Jugoslavia, Valerio Onida evidenzia come l’utilizzo delle azioni militari per il ripristino dell’ordine internazionale abbia costretto «i giuristi a porsi nuovi interrogativi sul fondamento, sulla legittimità, sulle condizioni e sui limiti dell’uso della forza nei rapporti fra gli Stati».

Interrogativi che, sebbene il contesto geopolitico sia profondamente mutato, appaiono ancora oggi di estrema attualità. Al di là delle considerazioni che ruotano intorno all’attuale stagione bellica, è fuori discussione il fatto che dopo gli sforzi condotti, da decenni e a vari livelli di governo, per il rispetto degli impegni assunti al termine della Secondo conflitto mondiale, in particolare attraverso l’adozione di Carte e Convenzioni destinate a rafforzare il riconoscimento della soggettività degli Stati e l’effettività dei diritti fondamentali a livello universale, «l’umanità» è quantomai in affanno nel «mantenere fede ai grandi ideali maturati in quell’epoca».

Il moltiplicarsi continuo degli scenari di guerra non solo denuncia drammaticamente l’inadeguatezza degli strumenti del diritto internazionale ad assicurare la pace e la giustizia fra i popoli e le Nazioni ma conferma – se ce ne fosse ancora bisogno – come la difesa degli interessi di natura economica venga sistematicamente anteposta al rispetto dei diritti umani universalmente riconosciuti.

E nonostante si sia provato con forte determinazione a giustificare molti degli interventi armati in nome dei diritti fondamentali, della democrazia, di un modello valoriale occidentale, latamente minacciato da una parte e dall’altra, il saggio di Onida suggerisce di ripartire dagli stessi fondamentali (eguaglianza, libertà, dignità, cittadinanza), dal principio pacifista così come fatto proprio dalla nostra Costituzione perché solo in una situazione di pace possono essere riconosciuti e garantiti i diritti e solo con questo riconoscimento, solo con questa garanzia, la pace è assicurata sul lungo periodo.

Il punto di partenza per qualsiasi riflessione sul pacifismo non può che muovere dal presupposto che il riconoscimento dell’altro è essenziale per stabilire e/o preservare la pace. Tale riconoscimento implica l’accettazione della relativa legittimazione a esistere (in quanto popolo) e il diritto di ciascuno a sviluppare la personalità secondo le proprie inclinazioni (in quanto essere umano che, al di là delle condizioni economiche e sociali, deve essere posto nella condizione di godere di pari dignità ed eguaglianza, di pari diritti, rispetto a quanti beneficiano di condizioni economiche e sociali più vantaggiose).

Il rispetto delle posizioni giuridiche soggettive è la precondizione indispensabile per assicurare la giustizia e le relazioni pacifiche sia nella dimensione intra che extra statuale poiché l’effettività dei diritti non rappresenta un fine in sé, ma svolge un ruolo più ampio al servizio della pace, la quale può essere raggiunta solo implementando le garanzie di diritto oggettivo. Non va sottaciuta la circostanza che la promozione delle Carte dei diritti regionali, sorvegliate da organismi giudiziari ad hoc, abbia senza dubbio contribuito a creare le condizioni affinché gli Stati intraprendessero percorsi condivisi per assicurare relazioni “fraterne”.

Come ha affermato Kant negli Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, benché non ci sia dato sapere «se la pace perpetua» è «una cosa reale o un non senso», nostro compito è «agire sul fondamento di essa, come se la cosa fosse possibile». Agire sul fondamento della pace significa ripudiare qualsiasi guerra o attacco armato che non sia condotto per fini difensivi; significa assicurare che le tensioni e i conflitti che si verificano all’interno della comunità internazionale siano risolti con mezzi non violenti, attraverso le regole del diritto.

Il senso dell’apertura internazionalistica dell’art. 11 della Costituzione italiana non è né quello di garantire il potere del più forte, sulla base di antiche consuetudini, né di “belligerare” in nome di valori diversi; l’obiettivo discende direttamente dal carattere antifascista della Costituzione, da cui proviene lo spirito pacifista che si propone di recidere il legame, proprio dello Stato moderno, tra politica e guerra e che rinuncia altresì allo scontro armato come strumento per assicurare la supremazia politica di uno Stato (o di un popolo) rispetto ad un altro.

Un principio, quest’ultimo, che potrebbe apparire scontato dopo la risposta su scala internazionale fornita in particolare dalla Carta ONU agli orrori del Secondo conflitto mondiale, e che tuttavia mai come oggi dimostra la sua estrema fragilità. È sotto gli occhi di tutti l’affanno dell’Organizzazione delle Nazioni Unite nel mantenere fede ai grandi ideali, alle regole di cui si è dotata, tanto è vero che le risoluzioni dal Consiglio di sicurezza sono sistematicamente violate e ignorate sia dai Paesi in guerra, sia dagli Stati-Nazione che potrebbero agire quali mediatori di pace.

La perdita di efficacia delle raccomandazioni e delle decisioni dell’ONU ha pertanto conseguenze dirette sui rapporti di diritto internazionale e sugli ordinamenti nazionali – perlomeno quelli sorti nel Secondo dopoguerra – poiché i principi sui quali si reggono sono di fatto sospesi. In nome della pace perpetua e globale si è tornati, infatti, al paradosso del bellum iustum, che si ritiene fornisca una legittimazione ai conflitti armati e alla violazione dei diritti umani, con un conseguente e inevitabile aumento delle disuguaglianze.

In questo contesto non sorprende il fatto che fatica a trovare aderenza nell’attuale contesto geopolitico la teoria della Costituzione come sistema di limiti e vincoli rigidamente imposti a tutti i poteri quale garanzia del pluralismo politico e dei diritti fondamentali, ovvero la concezione della Costituzione come patto di convivenza pacifica fra soggetti diversi, un accordo di non aggressione volto a tutelare tutte le diverse identità (e, contemporaneamente, un patto di mutuo soccorso per ridurre le diseguaglianze economiche e materiali).

Le scelte di indirizzo politico degli Stati nazionali, così come le strategie delle diplomazie internazionali, faticano oltre misura nel condurre verso una pratica politica in grado di ripudiare la guerra. Ciò si riscontra soprattutto sul fronte delle relazioni internazionali (la politica estera) che, per le posizioni che ha assunto nel tempo, non fornisce soluzioni per raggiungere il compromesso né all’interno dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, né fra le parti del Patto atlantico, né fra gli Stati membri dell’Unione europea.

Resta d’altro canto indubbio che nel solco della “grande rivoluzione” del Secondo dopoguerra – il riconoscimento e la tutela da parte del diritto internazionale delle posizioni giuridiche soggettive, ovvero uno statuto giuridico di cittadinanza universale svincolato dal diritto statale – le stesse potenze globali, a partire dalla NATO, dovrebbero impegnarsi a garantire i diritti umani adoperandosi per assicurare le regole sancite dallo Statuto delle Nazioni Unite anche all’interno degli ordinamenti in cui non si è intrapreso quel percorso culturale, nonché politico e giuridico fondato altrove sui principi del costituzionalismo democratico.

Non è un caso che nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 il legame tra pace e diritti sia tanto stretto da fondersi; la Carta ha invero affidato all’ONU il compito di farsi “guardiana” della pace tra le Nazioni (rapporto oggettivo) e ha investito i singoli beneficiari dei diritti umani e della pace di «promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne l’universale ed effettivo riconoscimento». Attraverso la promozione e la garanzia dei diritti inviolabili dell’essere umano è stata dunque affermata la necessità che la pace sia promossa dal basso (dalla società civile e nella società civile) e sia rispettata dagli organi di governo di ogni Stato, i quali hanno la possibilità di influenzare le relazioni internazionali.

Se appare assai complesso immaginare che il livello di integrazione in grado di garantire la pace e i diritti umani è quello internazionale tout court, a causa dell’oggettiva difficoltà di organizzare un sistema globale nel quale tutti gli Stati e le rispettive popolazioni concordano su un nucleo fondamentale di principi e condividono le medesime responsabilità circa la garanzia dei diritti umani e nell’assicurare un clima di relazioni pacifiche fra Stati sovrani, qualche auspicio non del tutto illusorio potrebbe invece aprirsi nell’ordinamento europeo.

Più precisamente, se a livello internazionale la mancanza di una leadership e l’assetto dei rapporti tra i Paesi consentono che le relazioni e le alleanze fra le Nazioni possano tutt’al più portare alcuni frutti in ambito economico, o in quello culturale e scientifico, diverso dovrebbe essere per l’ordinamento sovranazionale, dove una “globalizzazione politica” potrebbe essere perseguita attraverso progressive e ulteriori cessioni di sovranità – anche in ambito militare e di politica estera – da parte degli Stati membri, onde sostenere le istituzioni europee nel porre le basi per una progressiva emancipazione dai vincoli del Patto atlantico.

Come ha sostenuto Bobbio (L’età dei diritti, 1990, p. 173), da un rapporto diacronico tra istituzioni, singoli e formazioni sociali dovrebbe definirsi che «diritti dell’uomo, democrazia e pace sono tre momenti necessari dello stesso movimento storico: senza diritti dell’uomo riconosciuti e protetti non c’è democrazia; senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti», quindi la pace non può che essere costruita a partire dai e rafforzando i diritti umani. Solo quando «la forza del diritto – umana imperfetta espressione della giustizia» – riuscirà a prevaricare il «diritto della forza», sarà probabilmente raggiunta la pace perpetua, relazioni tra Stati sovrani che non potranno avere come alternativa la guerra (V. Onida, Guerra, diritto, costituzione, in il Mulino, n. 5/1999, p. 962).

[1] Professoressa ordinaria di Diritto costituzionale, Università degli Studi di Brescia.

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