Il filo rosso

Riflessioni pensando a Valerio

Il regionalismo tradito (una chiacchierata con Valerio Onida)

Ottobre 21, 2024

A cura di Marco Onida

Quella che segue è la trascrizione di un’“intervista” – o meglio, di una chiacchierata, del tutto informale, fra un padre e un figlio (per questo accompagnata da qualche espressione talvolta “colorita”) – fatta a mio padre Valerio nell’agosto 2020, sul tema dei rapporti fra Stato e Regioni e sulla riforma costituzionale del 2001. Riforma che, sulla carta, puntava a rafforzare le competenze delle Regioni, ma che di fatto ha segnato l’inizio di un’involuzione centralista. Un tema, oggi, più che mai attuale. Sono state aggiunte alcune note di contestualizzazione o aggiornamento, per le quali ringrazio il Dott. Marco Ladu.

 

Parlami del regionalismo, dalla riforma del Titolo V della Costituzione in avanti.

Partiamo da certe competenze concorrenti che, per come sono esercitate ed interpretate, finiscono per impedire alle Regioni di svolgere pienamente le funzioni che pure, secondo la Costituzione, sarebbero tipicamente “regionali”.

Un esempio: le Regioni sono competenti in materia di commercio, ma lo Stato ha competenza per praticamente tutto quello che riguarda il governo dell’economia. Per cui, in nome della “tutela della concorrenza”, lo Stato adotta decisioni che spetterebbero invece alle Regioni. Si vieta alle Regioni la definizione degli orari degli esercizi commerciali, introducendo ad esempio orari differenziati. E questo pur essendo il commercio materia regionale. Le regioni non possono agire, quindi prevale la liberalizzazione totale. La Corte ha avallato questa “espansione delle materie trasversali”, trasversali proprio perché riescono a interferire sulle altre.

Un altro esempio: la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (materia statale) va a interferire sul governo del territorio (materia regionale).

 

Ma l’ambiente era già statale.

Si, ma mentre nel sistema precedente (alla riforma del 2001), essendo il governo del territorio materia di competenza concorrente, come lo è ancora adesso, si riteneva che l’ambiente consentisse un intervento regionale – tanto è vero che le Regioni sono intervenute molto frequentemente in materia ambientale, nei limiti dei principi fissati dallo Stato e dall’Unione europea –  oggi invece la tutela dell’ambiente è esclusivamente statale, e questo vuol dire che le Regioni non possono più dir niente. Quindi le leggi regionali sull’ambiente sono praticamente tutte esecutive.

Altro caso esemplare è quello della competenza concorrente del coordinamento della finanza pubblica, attraverso il quale lo Stato non si limita a stabilire principi, ma di fatto controlla pienamente la spesa regionale, arrivando ormai ad impedire alle Regioni di aumentare anche singoli capitoli di spesa. Non solo, giustamente, lo Stato deve garantire l’equilibrio dei bilanci regionali, impedendo che ci siano squilibri di deficit (e questo va bene), ma interviene anche sulle singole spese.

E, infine, attraverso l’ordinamento civile lo Stato controlla tutto il personale delle Regioni, sulla base dei contratti collettivi nazionali. Le finanze sono tutte sotto il coordinamento finanziario dello Stato e il governo territorio anche, in nome della tutela della concorrenza.

 

Quindi alle Regioni cosa resta?  la sanità?

Le Regioni fanno il grosso della sanità che, peraltro, essendo materia di competenza concorrente è regolata dalle leggi statali di principio. E qui va menzionato un altro tema: cos’è il principio, cos’è il dettaglio? Qualche volta si fanno leggi di principio che in realtà sono molto dettagliate ed è in questo ambito che spesso emerge il contenzioso davanti alla Corte costituzionale.

In sostanza, nell’ambito della materie concorrenti lo Stato ha solo il compito di dettare i principi fondamentali e quindi di fare le cosiddette leggi quadro, leggi cornice, che contengano principi espliciti.  Invece lo Stato non le fa, non ne ha più fatta una dal 2001! Per cui i principi si ricavano dalla legislazione esistente, per via interpretativa, e cos’è principio e cos’è dettaglio naturalmente rimane molto vago e lo Stato in queste materie continua a legiferare molto liberamente mentre non fa quelle leggi che dicono “questi sono i principi”.

 

Le Regioni non si oppongono?

Le Regioni fanno spesso impugnative davanti alla Corte costituzionale, ma la Corte ha prevalentemente avallato l’approccio dello Stato.  Praticamente, quella del 2001, è una riforma abbandonata. Tra l’altro subito dopo la riforma del 2001 si è ben riconosciuto che bisognava “rifare i principi fondamentali” e quindi si prevedeva di emanare nuove leggi che dettassero appunto i principi fondamentali. E, invece, il Parlamento ha fatto una legge che diceva che, in attesa della fissazione dei nuovi principi fondamentali, il governo è delegato ad emanare decreti legislativi per compiere la ricognizione dei principi fondamentali ricavabili dalla legislazione esistente. Ne sono stato emanati due o tre, ma siccome sono appunto “ricognizioni”, che, come tali, non possono innovare (lo ha detto la stessa Corte), i nuovi principi devono essere fissati da nuove leggi. Queste leggi non sono state fatte e quindi si è abbandonata anche quella strada; i principi restano affidati a questa operazione interpretativa sulla base della legislazione esistente. È il modo di legiferare del Parlamento che non è cambiato!

 

Quindi è come se il Parlamento, dopo aver votato la legge costituzionale del 2001, se ne fosse…

…se ne è fregato!

 

Ma è lo stesso Parlamento che aveva votato la riforma?!

Certo, infatti è un paradosso! La legge costituzionale alla fine à stata approvata solo dal centrosinistra tra l’altro, ma in nome della spinta all’autonomia che veniva dalla Lega.

 

E perché la Lega? Il centrodestra si è opposto?

Perché in Parlamento tutte le maggioranze sono stataliste, tutte le maggioranze! In pratica le Regioni, lo dicono anche le persone che lavorano negli uffici legislativi delle Regioni ,fanno cose di “super dettaglio”, mentre non riescono più ad avere una politica.

 

Tranne le 5 a statuto speciale ovviamente.

Anche quelle, perché le Regioni speciali, per un certo verso, hanno visto aumentare le loro competenze dalla riforma, perché l’articolo 10 [ndr: della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3] stabilisce che, dove ci sono nuove forme e condizioni di autonomia sancite dalla riforma del 2001, queste valgono anche per le Regioni a statuto speciale, perché altrimenti queste resterebbero limitate ai loro statuti.

Restano poche materie in cui c’è un eccesso di competenza regionale su quello delle Regioni ordinarie, ma è poca roba. E per le materie di c.d. competenza esclusiva delle Regioni speciali, per le quali c’è un elenco, la Corte ha molto valorizzato il limite dei principi dell’ordinamento giuridico dello Stato, del diritto europeo e degli obblighi internazionali nonché delle norme fondamentali delle riforme economico sociali della Repubblica. Questa espressione era contenuta negli Statuti. Come norme fondamentali, uno si immaginerebbe, ad esempio, la riforma agraria; invece, di fatto, sotto la voce “norme fondamentali” si fa passare di tutto.

Un esempio scandaloso: la Sicilia aveva tentato di fare una legge per ripristinare il carattere  elettivo dei Consigli provinciali, delle organizzazioni delle Province, che in Sicilia si chiamano liberi consorzi dei comuni;  il Governo gliel’ha impugnata e la Corte costituzionale gliel’ha bocciata dicendo che è norma fondamentale delle riforme economico sociali della Repubblica quella di eliminare il carattere elettivo dei consigli provinciali [ndr: si veda il comunicato stampa del 6 luglio 2023 relativo alle motivazioni addotte dalla Corte con la sentenza n. 136 del 2023], che infatti non sono più eletti però sono previsti dalla Costituzione come enti. Fra l’altro quella era la premessa alla riforma del 2016, la riforma Renzi che voleva praticamente abolire le Province: la  riforma non è passata, ma il carattere elettivo delle Province è venuto del tutto meno e quindi le Province sono state indebolite,  come pure le città metropolitane.

Questa è un’altra cosa scandalosa, le città Metropolitane. Almeno per quelle più grandi, che sono quelle con più di tre milioni di abitanti – Milano e Napoli – è previsto che possano avere organi direttamente eletti, il Sindaco e il Consiglio metropolitano.

 

Che non esistono?

Sì, di fatto esistono, il Sindaco Metropolitano è il Sindaco del Comune di Milano e il Consiglio metropolitano è eletto dai consiglieri comunali fra i consiglieri comunali, e se uno decade da consigliere comunale decade anche da consigliere metropolitano; quindi, di fatto non c’è un’autonomia in capo a questi enti.

 

Quindi c’è un Consiglio metropolitano che si riunisce con tutti i Consigli della città metropolitana?

Sì, ma non tutti i consiglieri: è eletto dai consiglieri comunali della comunità, ma non esiste ancora l’elezione del sindaco metropolitano. Il paradosso è che il Sindaco di Milano (oggi Sala) è eletto dagli elettori di Milano e va anche a fare il Sindaco Metropolitano, ma in realtà non lo fa, nel senso che non c’è una vera “testa politica” della città metropolitana. Cosa ancora più paradossale è che Milano, con la legge città metropolitana, si era ben data uno statuto, nel 2015, in cui si prevede espressamente l’elezione diretta del Sindaco Metropolitano e del relativo Consiglio. Ma tutto questo rimane bloccato perché le modalità di elezione devono essere determinate dalla legge statale, che il Parlamento non ha fatto e non fa.

 

Servirebbe il ricorso in carenza!

È vero, ci vorrebbe il ricorso in carenza, come davanti alla Corte di Giustizia dell’UE. Ma non solo, pensa che la Corte è arrivata a dire che è principio fondamentale delle riforme economiche sociali il fatto che le province siano elette non direttamente. È scandaloso.

 

Però nel frattempo c’era un nuovo Parlamento. Il nuovo Parlamento ha giocato contro?

Il Parlamento che ha votato la riforma era a maggioranza PD ed infatti la riforma è stata votata solo dal centrosinistra ed è poi stata confermata dal referendum. Ma il centrodestra, che ha votato contro la riforma, non ha fatto praticamente campagna e infatti è andato a votare il 34% degli aventi diritto, che a larga maggioranza ha votato sì (non c’è quorum); da allora,  il legislatore statale si è mosso quasi invariabilmente nella direzione centralizzatrice.

 

Infatti si sentiva dire che anche il governo Monti è stato estremamente statalista.

Certo. Va detto che ha giocato il fatto che bisogna osservare il diritto europeo. Poi dal punto di vista politico ha giocato il fatto che in quello stesso periodo sono venuti fuori gli scandali dell’uso dei fondi regionali (come quello che si era comprato il SUV) e in  molte Regioni ci sono stati dei processi che hanno sono finiti con condanne.

 

Vero, anche in Alto Adige è emersa la questione dei rimborsi.

Invece che imporre limitazioni ai rimborsi, questo ha giocato politicamente per dire che le Regioni sarebbero il luogo dove ci sono soltanto gli affaristi di secondo grado.

 

È vero che è difficile perché, se tu sei a contatto con il territorio, le scelte sono molto più dettate anche da ragioni di opportunità

Sì, ma ragioni di opportunità legate ad interessi del territorio!

 

Sì, però si sono visti casi, anche in Valle d’Aosta, dove ci si fa favori e poi si va in galera.

Vabbè, tu dici nel territorio è più facile che ci sia l’affarismo.

 

Sì, io ti voto perché… il favoritismo… per esempio, per le autorizzazioni ambientali è pericoloso lasciare troppo spazio al livello locale .

Certo, ma infatti la Corte è ferma ed è giusta nell’affermare che gli standard ambientali dello Stato non sono derogabili “in meno”, ma possono essere derogabili “in più”. Anzi, in qualche caso dice no, è lo Stato che stabilisce l’equilibrio giusto. Ma quello mi va benissimo, però è quando entri in estremo dettaglio, non si può sostenere che legiferare nell’estremo dettaglio serva a combattere i favoritismi.

 

E non c’è nessuno a livello del Parlamento, del suo segretariato e dei funzionari che spinge?

No, no, la struttura “Parlamento” ha sempre visto il centro, mai la periferia. Le Regioni hanno combattuto la loro battaglia negli anni ‘70 per conquistare gli spazi e avevano fatto anche delle buone cose, e negli anni ‘90 si era arrivati alle famose leggi Bassanini che avevano decentrato moltissimo l’amministrazione. Non la legislazione, ma l’amministrazione era stata fortemente trasferita alle Regioni. La riforma del 2001 sembrava un punto di arrivo e invece dalla proprio da là è partita una spinta anti-regionale e centralizzatrice. Probabilmente un po’ anche per la crisi economica e l’influenza diritto europeo che “unifica”, si tende a dire che non ci possono essere 20 Regioni con 20 sistemi diversi e un po’ dal punto di vista politico questo ha causato un indebolimento delle forze politiche regionali dei consiglieri regionali (“ma insomma, cosa sono sti 20 sistemi”) .

 

Ma a livello europeo ci sono Paesi dove vigono i “venti” sistemi diversi.

Certo: la Spagna, la Germania, il Belgio. Ma non è che il diritto europeo sia incompatibile con una forte regionalizzazione – c’è anche il comitato delle Regioni – ma l’Italia è così…

Aggiungi, l’ultimo elemento, che sul piano finanziario le Regioni non hanno mai avuto una vera autonomia finanziaria, perché non possono imporre tributi. Potrebbero imporre tributi nei limiti fissati nella legge dello Stato che però non ha mai istituito tributi regionali, ma ha sempre devoluto il gettito dei tributi statali in tutto o in parte alle Regioni, oppure al massimo ha stabilito che le Regioni possono apportare modifiche a tributi entro certi limiti, ma sempre di tributi statali devoluti si tratta e non di tributi regionali.

E questo vale anche per i tribunali comunali, come ad esempio l’IMU che è nata come un tipico tributo comunale. A un certo punto la legge ha detto: “no, metà va allo Stato”. L’IMU poi è stata abolita sulla prima casa.

In sostanza anche sul piano finanziario le Regioni sono state indebolite, non hanno mai conquistato una vera autonomia. E poi c’è chi dice che 20 regioni sono troppe, poi ci sono deviazioni, persino in Valle d’Aosta, che nasce come emblema di autonomia culturalmente fondata sono emerse situazioni locali non proprio apprezzabili, insomma l’autonomismo oggi non è molto forte…e anche per ragioni politiche: ci vuole una classe politica regionale forte, idealista, che creda nell’autonomia, ma non come strumento per fare affari.

 

“Decido tutto io in casa mia”!

Ci sono Paesi in cui questa classe politica regionale è forte, pensa alla Catalogna. O in Germania, dove per esempio sul Covid molte decisioni sono state prese dal Länder. L’Italia invece non ha un sistema decentrato: è sempre rimasta ancorata alla vecchia concezione napoleonica del centro dello Stato che fa tutto [ndr: in Italia, infatti, proprio in Covid la situazione di emergenza ha dato luogo ad una richiesta collettiva di maggiore centralizzazione delle decisioni].

 

Sì perché ancora è uno Stato immaturo.

Esatto. Le Regioni meridionali non hanno mai spinto nel senso del regionalismo, ma per interventi statali, mentre le Regioni che spingevano per il regionalismo erano quelle settentrionali, con la spinta secessionista della Lega [ndr: in principio, non a caso, Lega Nord].

 

Però gli eccessi – come dimostra il caso Catalogna – producono anticorpi. In Europa l’affare Puidgemont è stato visto come un rischio di disgregazione, porti la Catalogna è fuori dalla Spagna e quindi fuori dall’Europa, salvo poi dover rinegoziare, come avverrebbe per la Scozia.

Di per sé l’autonomismo spinto non è antieuropeo!

 

Però complica: la gente dice, abbiamo un sacco di cose di cui preoccuparci per costruire l’Europa e ci dobbiamo anche occupare delle beghe interne?

Secondo me la spinta indipendentista però nasce un po’ come sviluppo di un di un autonomismo frustrato, anche in Italia la Lega è partita chiedendo l’autonomia… più che l’indipendenza.

Inoltre va ricordato che l’autonomia differenziata è là che dorme [ndr: nel frattempo, invero, su spinta dell’attuale Governo Meloni è stata approvata la c.d. legge Calderoli – in attuazione dell’articolo 116, comma terzo, della Costituzione – oggi oggetto non solo di una proposta di referendum abrogativo, ma anche del ricorso alla Consulta di quattro Regioni (Campania, Puglia, Sardegna e Toscana)]. L’autonomia differenziata è una trovata tutt’altro che stupida, voluta della legge costituzionale del 2001, che diceva (a parte le Regioni speciali che restano) anche le singole Regioni ordinarie possono chiedere forme e condizioni particolare di autonomia in certe materie concorrenti, come l’istruzione, che vengono concesse con la legge dello Stato approvata a maggioranza assoluta sulla base di un’intesa fra Governo e Regioni. Quindi si dava la possibilità di differenziare le situazioni.

L’idea era giusta: “noi siamo in grado di fare meglio certe cose che fa lo Stato, datecene la possibilità”.

E in effetti questo, per certe Regioni, quelle più vitali, poteva servire. Invece, le Regioni del nord hanno rivendicato questo, almeno le regioni leghiste, sotto il profilo finanziario, hanno detto “vogliamo che i tributi riscossi nella nostra Regione restino a noi”, con la riduzione del cosiddetto residuo fiscale. Ma questo è sbagliato, perché dare più autonomia, anche se devi dare maggiori mezzi alle Regioni, non vuol dire che devi togliere la quota di reddito della Lombardia che va necessariamente a compensare i minori redditi delle Regioni meridionali (solidarietà). Invece al nord hanno molto enfatizzato questo aspetto anche se di per sé, costituzionalmente, l’autonomia differenziata non comporta affatto la riduzione del residuo fiscale. Questo sta nel titolo V, all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.

 

C’è stato un referendum consultivo.

Certo [ndr: nel 2017] ed io ho votato sì. Si trattava di chiedere alla gente se fosse d’accordo (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna). La Lombardia ha fatto una rivendicazione molto spinta, l’idea era “facciamo noi ce siamo in grado di fare meglio che quello che oggi fa lo Stato, allora dateci la possibilità di farlo”.

 

Ma perché si è reso necessario fare un referendum?

Per rafforzare politicamente la Regione. Ma poi, nonostante la Lega governi, cosa è stato fatto? Niente, hanno cominciato trattative, ma non sono mai arrivati a una conclusione [ndr: questo prima dell’attuale Governo Meloni, come sopra ricordato].

 

La Lega al governo alla fine è statalista.

Sì, secondo me finisce per essere statalista, infatti non a caso tra Salvini e Zaia, quest’ultimo ha rivendicato competenze per la gestione del Covid, mentre Salvini è statalista per forza perché prende voti anche al Sud  e perché poi il suo punto di forza è quello degli immigrati [ndr: sul punto, si è in attesa della definizione, prevista per il prossimo dicembre, del c.d. processo Open Arms a carico di Matteo Salvini] e quindi gioca sul cosiddetto interesse nazionale, non sugli interessi regionali, quindi in realtà lui le Regioni non le difende affatto.

 

Quindi i regionalisti come te e Giorgio Pastori sono tutti frustrati?

Frustrati?  Frustratissimi!

Come dicevamo, la città metropolitana di Milano è il paradosso: dal 2015 esiste uno statuto, ma no non si fa la legge quindi non si può eleggerne gli organi! Il Sindaco metropolitano lo fa Sala, che non li vuole esercitare, è eletto a Milano e il Comune di Milano teme di perdere qualche prerogativa. Eppure Milano è proprio la tipica città metropolitana, sulla carta avrebbe delle competenze per il governo del territorio. Quella dei trasporti locali, per esempio, sarebbe materia tipica da governo metropolitano. Hanno fatto adesso la riforma delle linee locali, ma su un ambito territoriale o tutto diverso dalla città metropolitana.  Monza-Brianza se ne sono addirittura andati, creando una nuova Provincia, come fai a dire che non sono città metropolitana Monza Brianza vista la continuità territoriale? Ogni giorno mi pare che 5-600.000 persone facciano i pendolari per lavoro tra Comuni della cintura e Milano. Non c’è praticamente un ufficio né pubblico né privato in cui non ci sia qualcuno che viene quotidianamente da fuori. La continuità e l’interscambio in un’area di questo genere sono inevitabili e quindi il governo del territorio, comprese le grandi aree commerciali e dei trasporti, dovrebbe essere sempre più unificato a livello metropolitano, come la grande Londra. Invece no, perché siamo caratterizzati da centralismo e, diciamo, da municipalismo estremo, cioè liti fra Comuni, mentre quello che manca è una coscienza di autonomia non localistica, non particolaristica, ancorata poi alla visione nazionale, però forte e capace di portare avanti le prospettive di un territorio come può essere quello della città metropolitana di Milano.

Questo siamo purtroppo, sul piano istituzionale c’è stato un regresso invece che progresso, per questo che poteva essere un lungo cammino. Le Regioni ci hanno messo 22 anni prima di essere avviate, dal 1947 al 1970.

Per le speciali, a loro volta, c’è tutta una tematica. Il Trentino, secondo me, è un buon esempio, una forma di autonomia che ha funzionato, sono stati anche bravi a costruire le loro amministrazioni e quando è venuto fuori il problema della crisi economica e relative restrizioni finanziarie hanno detto “non toglieteci i soldi, lasciateci agire con maggiori competenze”. Le regioni speciali hanno conservato tutte questo privilegio che era privilegio di conservare quota molto elevata di gettito, il che per le Regioni che hanno avuto sviluppo economico ha voluto dire molto. La Valle d’Aosta è cresciuta moltissimo. Ma non hanno mai avuto autonomia tributaria.

Quindi, per riassumere, il regionalismo italiano soffre sia sul lato legislativo che su quello finanziario.

Poi c’è stato il crollo dei partiti. Nel 1992 Berlusconi riesce a fare una maggioranza alleando la Lega lombarda, la Lega di Bossi, e il MSI, cioè la forza più opposta all’autonomia, ma alleati su visioni liberiste. Quindi la destra non ha più coltivato il regionalismo. La sinistra, che aveva nel suo animo persone come Piero Bassetti, o anche l’Emilia Romagna la Toscana, che ci tenevano a sviluppare le loro politiche, ha perso smalto, è venuto meno lo smalto autonomistico, un po’ per le questioni economiche nazionali. Se incombe la crisi finanziaria, non si pensa a potenziare l’autonomia, ma piuttosto a ridurre la spesa regionale.

 

Di questi personaggi come De Luca in Campania alla fine sono un po’ delle tigri di carta.

Vi sono personaggi molto radicati, come Emiliano in Puglia, però non è che mi pare portino avanti una politica più autonomistica. De Luca vorrebbe impedire ai Lombardi di andare in Campania [ndr: si ricordi fra tutte, ancora una volta in epoca Covid, l’espressa richiesta di non accogliere presso le strutture ospedaliere del Sud i pazienti provenienti dal Nord Italia].

 

Nota conclusiva: cosa avrebbe detto Valerio della Legge Calderoli? Ci piace pensare che, come sempre faceva, non l’avrebbe criticata “perché proveniente dalla maggioranza di governo attuale”.  Avrebbe visto con favore il progresso rispetto ad una materia che “dormiva”. Avrebbe saputo distillare ciò che c’è di buono e distinguerlo da ciò che lui non avrebbe considerato tale.

 

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