Post del Comitato Direttivo
La ragion di Stato e il rispetto della legalità in primis costituzionale
Una certa irrequietezza e persino irritazione da parte di coloro i quali subiscono le angosce di un delicato processo penale che ritengono improprio, rivestendo un ruolo istituzionale di primo piano, è ovviamente comprensibile.
È a tutti noto che il processo di Palermo nel quale l’attuale ministro per le infrastrutture Matteo Salvini è imputato di reati particolarmente gravi, quali il sequestro di persona aggravato e il rifiuto di atti d’ufficio (tra l’altro Salvini resta ancora il leader del secondo partito che sostiene l’attuale Governo) finisce per rivestire una chiara incidenza nei rapporti tra la pubblica opinione e il potere politico costituito, assumendo una speciale rilevanza per quanto attiene alla credibilità della classe politica e dirigente di questo Paese, magistratura inclusa.
È superfluo ripercorrere la vicenda che ha visto protagonista l’ex ministro dell’Interno Salvini a proposito del mancato sbarco di 164 migranti a bordo dell’imbarcazione Open Arms, cui è stato negato per svariati giorni lo sbarco presso un porto italiano prospiciente. La vicenda aveva certamente colpito tanti nel mondo, più che per l’indirizzo politico sottostante alla scelta del ministro, preoccupato di impedire l’accesso sul territorio nazionale di un numero cospicuo di migranti difficile da gestire sotto vari profili, per le condizioni di assoluto disagio nelle quali versavano i migranti e lo stesso equipaggio della nave salvatrice, in attesa di conoscere se, come e dove attraccare per consentire un soccorso adeguato, tra l’altro di un discreto numero di minori.
È dunque, almeno in tal caso, davvero superfluo ragionare intorno alle politiche migratorie che hanno connotato e connotano questo e quel Governo italiano, certamente chiamato, ben più di altri, a confrontarsi con il tema dell’accoglienza e della stessa possibilità di aiutare persone in grave difficoltà, in primis sanitarie, che giungono nel nostro Paese per sfuggire ad un destino segnato e che procura molto spesso la fine della loro vita in mare. Dunque certamente difficoltà di ordine politico che dovrebbero coinvolgere in pieno quantomeno l’Unione Europea ma, in ogni caso, necessità di muoversi pur sempre nel rispetto delle regole imposte dal diritto nazionale, ma anche internazionale e umanitario, che costituisce preliminarmente un limite invalicabile per qualsiasi autorità investita di potere politico, in Italia e nell’ordinamento europeo. Ecco perché, a fronte dell’immediata sollevazione di scudi della Presidente del Consiglio nei confronti della autorità inquirente che ha ritenuto di richiedere una pena detentiva di sei anni per il reato in questione (la pena prevista dall’art. 605 c.p. per un pubblico ufficiale che abusi dei suoi poteri, essendo coinvolti minori, va da tre a dodici anni), sembra opportuno ricordare che in gioco, almeno in questo caso, non è nessuna ragion di Stato, come si vorrebbe far credere e si sostiene evocando la “difesa dei confini” della nostra Patria a giustificazione della condotta posta in essere dall’ex ministro degli interni e attuale ministro delle infrastrutture.
E non perché non abbia un senso, anche giuridico, la ragion di Stato in grado di giustificare comportamenti delittuosi da parte di chi ricopre cariche di governo, ma solo perché, nel caso di specie, è stato escluso dall’organo parlamentare competente – il Senato – che si sia trattato di questo.
Ricordiamo brevemente che i ministri rispondono davanti all’autorità giudiziaria ordinaria ai sensi dell’art. 96 Cost. dei reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni e che, dopo la riforma di quella stessa norma, la legge costituzionale n. 1/1989 prevede che si possa sfuggire all’accertamento penale solo qualora venga negata l’autorizzazione a procedere da parte dell’organo parlamentare competente (in questo caso il Senato). E così è stato in questo caso: l’imputazione del ministro Salvini nel processo “Open Arms” è stato ritenuta dall’assemblea di Palazzo Madama del tutto legittima nella seduta del 30 luglio 2020, allorché non è stata raggiunta la maggioranza assoluta, che era allora di 160, avverso l’autorizzazione allo svolgimento del processo in questione, che può celebrarsi davanti al giudice ordinario naturale, ossia il Tribunale di Palermo. Il processo va svolto secondo le regole vigenti e applicando le norme di rito e sostanziali, previste nell’ordinamento italiano; nessuna impunità è possibile evocare, ma solo una valutazione da parte dell’autorità giudiziaria – e non dunque della pubblica accusa, che ha formulato la richiesta che tanto ha scandalizzato la Presidente Meloni – che potrà stabilire se la condotta riconducibile alla volontà del ministro Salvini abbia o non abbia nel merito integrato la commissione del reato.
Lo scontro tra il potere politico e l’apparato giudiziario del nostro Paese, ahinoi, si trascina da molto tempo e sicuramente in molti casi si può serenamente ammettere che le inchieste giudiziarie non hanno sortito gli esiti ipotizzati dai magistrati inquirenti, il che non ci esime dal ricordare che tuttavia il potere politico, ancorché fornito di legittimazione democratica “dal basso”, non pesa in misura maggiore nell’ordinamento di quanto non sia esattamente previsto dall’assetto organizzativo della Repubblica. I politici non sono immuni, di per sé, dalle responsabilità che, come qualsiasi altro cittadino, può metterli a confronto con l’autorità giudiziaria, la quale a sua volta è tenuta al rispetto non solo della legge, che va applicata, ma ancor prima della stessa Costituzione, che non consente ai magistrati – requirenti e giudicanti – trattamenti di favore connessi al ruolo politico di chi si ritiene abbia infranto le regole giuridiche.
Staremo a vedere come finirà questa incresciosa vicenda giudiziaria, ma ciascuno resti al suo posto e si accertino fatti che hanno, almeno, sicura valenza penale e non (più) politica.