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Presidente Meloni, l'hanno avvertita che potrebbe revocare il ministro Sangiuliano senza aspettare il premierato?

Settembre 4, 2024

Gli ultimi giorni d’estate non offrono quiete al Governo Meloni: il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, è al centro di una battaglia a colpi di “post” su Facebook e altri social, a causa della
controversa nomina (o non-nomina, secondo le versioni discordanti degli interessati) di una “consigliera ai grandi eventi” nel suo staff (tale Maria Rosaria Boccia), pur in presenza di possibili e non secondari conflitti di interessi.
Al di là della vicenda contingente, emerge in maniera piuttosto chiara che il ministro non abbia fornito una ricostruzione veramente trasparente e veritiera dei fatti non solo alla pubblica opinione, ma forse persino alla Presidente del Consiglio.
Se tutto ciò fosse verificato (e sicuramente lo è per la Presidente Meloni, che ben sa se il Ministro le ha raccontato cose smentite successivamente dalle evidenze emerse), sarebbe acclarata una rottura del legame di fiducia personale intercorrente fra la Presidente e il Ministro (un tecnico di area,
peraltro).
Dunque, parrebbero riunite le condizioni utili affinché Meloni chieda al Presidente della Repubblica la revoca del Ministro Sangiuliano e la sua contestuale sostituzione con un’altra personalità o con un incarico ad interim per lei o un altro ministro.
La revoca ministeriale non ha mai preso piede in Italia e si tratta di un punto controverso in dottrina:
nel silenzio della Costituzione (l’art. 92 cita esclusivamente la “nomina dei ministri”), è possibile procedere alla revoca ministeriale?
In realtà, i Costituenti non lo escludevano (si veda al proposito la relazione al progetto di Costituzione di Meuccio Ruini, dove si scriveva che se il Presidente della Repubblica nomina
conseguentemente può revocare), e invero gran parte della dottrina (fra cui Valerio Onida) ha affermato che l’istituto sarebbe pienamente compatibile con la trama degli articoli 92, 94 e (soprattutto) 95 Cost., nella misura in cui la capacità del Presidente del Consiglio di dirigere la politica generale del Governo e di mantenerne l’unità di indirizzo è evidentemente condizionata alla possibilità di “disfarsi” di pezzi recalcitranti o inaffidabili della compagine governativa.
D’altra parte, il silenzio della Costituzione non è stato considerato determinante nel caso – non dissimile, a ben vedere – della sfiducia individuale e nella stessa sent. n. 7/1996 su questo istituto (il celebre “caso Mancuso”), la Corte costituzionale non parve escludere che anche il Presidente del
Consiglio potesse rivendicare una qualche facoltà di revoca a prescindere dalla sfiducia parlamentare.
Peraltro, in un medesimo contesto di silenzio (costituzionale e legale, poiché nulla è detto nella legge n. 400 del 1988) si è sviluppata la prassi della revoca dei sottosegretari di Stato, considerato un contrarius actus della loro nomina.
A ben vedere, allora, non esistono ragioni giuridiche pregnanti per considerare inesistente – e soprattutto interdetto – il potere di revoca ministeriale. Semplicemente, il problema a lungo è stato determinato dalle condizioni politiche contingenti: nei governi guidati dalla Democrazia Cristiana una revoca ministeriale era considerata impossibile per i delicati equilibri su cui si reggevano e per la debolezza delle loro leadership. Dunque, l’esclusione di un ministro appartenente ad un partito
alleato o ad una corrente minoritaria del partito maggioritario avrebbe provocato irrimediabilmente la crisi di governo.
Oggi le condizioni politiche sono ben diverse e la Presidente Meloni racchiude in sé tutte quelle condizioni di leadership politica ed istituzionale che le consentirebbero di estromettere un membro divenuto ingombrante e (forse) poco affidabile del suo Governo. Membro peraltro non appartenente
a partiti diversi, ma un “tecnico” vicino al movimento guidato dalla stessa Meloni.
Sarebbe un’innovazione costituzionalmente legittima e che darebbe il giusto peso alla figura del Presidente del Consiglio, in un quadro del tutto compatibile con la forma di governo parlamentare.
E ciò senza aspettare le inutili complicazioni che si profilano nell’orizzonte, inutile e dannoso, del “premierato”.

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